Zum zum zum zum zum
Se ognuno di noi raccontasse la propria avventura da lockdown, più o meno vi metterebbe tutti gli ingredienti che ormai conosciamo a menadito, per una vita che assomiglia sempre a se stessa e che atrofizza le capacità relazionali, o meglio le indirizza a una mancanza di completezza, concentrandosi solo su alcuni aspetti del complesso soggetto relazionale che ognuno di noi è. Relazioni in cui il corpo viene messo a tacere.
Generazione zoom zoom zoom. Questa settimana ho partecipato a una ventina di zoom (o skype o webex, per un po’ di par condicio, senza privilegiare nessuna azienda), da 15 minuti a 3 ore e passa. Ho dato delle lezioni universitarie, ho preparato altre lezioni, ho partecipato a una lunga assemblea di una grande associazione, ho contattato i miei anziani genitori, ho partecipato alle confabulazioni di un club di filosofi, ho pure rivisto amici dopo 30 anni, ho mantenuto i contatti con un Paese nel quale recentemente ho soggiornato, ho presentato un libro, ho moderato una riunione accademica tra due università, ho partecipato come ospite a due webinar dotti e un po’ ermetici… L’unico appuntamento che ho avuto in presenza, in una regione accanto alla mia, per lavoro, è risultata per me, dopo due mesi di lockdown, una faticaccia. Il timore del contagio, tra l’altro, ha inibito le mie capacità relazionali, cercando di chiudere al più presto i contatti dal vivo, a riprendere la strada di casa, a ritrovare gli agi della mia stanza pur non troppo grande. Mi sentivo imbarazzato perché la gente mi vedeva nella mia totalità, mentre su zoom vediamo solo il busto delle persone. Nella riunione accademica indossavo giacca e cravatta, ma pure jeans e pantofole vecchie e sfilacciate che non venivano viste dai magnifici rettori. Insomma, il mondo esteriore s’intisichisce.
Generazione zum zum zum. Cresce invece il mondo interiore, come testimonia la colonna sonora di queste giornate chiuso in camera mia, una serie infinite di musiche di ogni genere. Zum zum zum zum zum, come cantavano Sylvie Vartan e Mina, in un’edizione di “Canzonissima” del 1968: «Zum zum zum zum zum, la canzone che mi passa per la mente». Della classica, dell’hard rock, dell’etnica, molta fusion, un po’ di sinfonica, un zeste di contemporanea, molto piano solo, qualche grande orchestra. Zum zum zum zum zum. Quando arriva una telefonata, abbasso il volume del tappeto sonoro, ma non lo spengo del tutto, come se quel fluire di note mi accompagnasse rassicurante. Sostituite alla musica i videogiochi, la televisione sempre accesa, le letture bulimiche, e il risultato sarà lo stesso. Ecco… è l’insicurezza che cresce, non solo e non tanto per i metodi troppo spesso terroristici che i media usano per dar conto della pandemia, ma anche per la solitudine che non è la vocazione dell’essere umano, che è umano perché è sociale. L’insicurezza invade ogni nostra operazione che non sia isolata. Nel mio primo viaggio fuori regione dopo due mesi, è la paura che mi ha guidato e non mi ha mai lasciato.
Relazionalità zum zum zum zum zum. Un single come il sottoscritto si trova nella situazione che ho descritto, mentre i membri di una comunità familiare hanno il problema supplementare di relazioni che diventano esclusive, con moglie, marito, figli, nonni, senza possibilità di fuga, di riposo. Una mamma con due frugoletti vivacissimi rischia l’esaurimento nervoso, e un marito o una moglie che convive con un partner un po’ pessimista rischia la depressione. Le fughe non possono essere che quelle “zum zum zum zum zum”, anche se in misure minori o diverse. Abbiamo forse capito in questa lunghissima parentesi sociale che dobbiamo già prepararci all’uscita. Non tanto un’esplosione di vena consumistica (di persone e di cose, come quelle a cui abbiamo assistito nei pochi giorni di rilassamento delle misure restrittive prima e dopo Natale), quanto una vera e propria rieducazione alla socialità, alle relazioni reali e non virtuali. Possiamo ripartire forse dallo sguardo, che in questa pandemia ci è stato di aiuto per riconoscere amici e conoscenti nascosti dalle mascherine, assieme alla voce fortunatamente. Abbiamo cioè bisogno di riappropriarci della corporeità, delle strette di mano, dell’abbraccio, del bacio, della complicità dei corpi nel lavoro, nel divertimento, nelle diverse manifestazioni dell’amore. Lo sguardo, la voce, il corpo nel suo insieme, proprio quello che abbiamo messo tra parentesi, sarà la via a una nuova relazionalità. Il corpo rivalutato e interiorizzato, direi spiritualizzato, dalla lunga astinenza di contatti. E forse il corpo ci salverà?