Zio e nipote davanti al vulcano
Il visitatore che a Como, a poca distanza dal lago omonimo, contempla la marmorea facciata della cattedrale dedicata all’Assunta – d’impianto gotico, ma completata nel XVIII secolo da Filippo Juvarra con una maestosa cupola – può stupirsi di scorgere nelle edicole ai lati del portale maggiore di questo tempio cristiano le statue di due illustri pagani del I secolo d. C., zio e nipote: Plinio il Vecchio e Plinio il Giovane, i natali dei quali Como ha sempre rivendicato con vanto.
Di entrambe le figure si sono occupati il romanzo Gli ultimi giorni del comandante Plinio (Marlin Ed.) e il saggio che si legge come un romanzo All’ombra del Vesuvio (Solferino Ed.). Col primo titolo, suo esordio narrativo giunto già alla terza edizione, l’archeologo napoletano Alessandro Luciano privilegia Plinio il Vecchio nel suo ruolo di ammiraglio della flotta imperiale stanziata a Miseno, nei giorni densi di presagi inquietanti che precedettero l’eruzione del 79 d. C, durante la quale egli perse la vita: un racconto che, attraverso l’espediente di un diario narrato in prima persona, mescola sapientemente i dati storici con altri d’ invenzione. Nell’altro testo la storica dell’arte londinese Daisy Dunn, rileggendo la Storia naturale del primo Plinio e le Lettere del secondo, intreccia magistralmente la vita dello studioso perito per curiosità scientifica e senso del dovere con quella del nipote che ne perpetuò il ricordo e l’esempio.
Sono opere di autori giovani che, con approccio diverso, raggiungono il medesimo scopo: far rivivere, attraverso due testimoni d’eccezione, cultura, arte, luoghi, usanze e abitudini di un’epoca, appassionando il lettore.
Tutto ha inizio con un evento inaspettato e terrificante, i cui sintomi Alessandro Luciano rileva con studiata suspense: il risveglio di quello che i rivieraschi del golfo di Napoli ritenevano un pacifico monte inghirlandato di vigneti ed era invece un vulcano dei più micidiali. Vediamolo come in diretta…
Da quasi dodici ore Pompei sta sparendo sotto il sudario di una coltre grigiastra, che tutto uguaglia. Con sinistro crepitio una pioggia costante si abbatte su strade, piazze, cortili interni delle case, giardini: sono pomici leggere e lapilli all’apparenza innocui, ma che penetrano dovunque attraverso impluvi e cortili, sono ceneri che mozzano il respiro. Di quando in quando allo scroscio di tetti e pareti crollanti per le continue scosse telluriche, ai richiami e ai gemiti dei feriti o sepolti sotto le macerie si alternano i boati del Vesuvio, mostro che l’ira degli dei ha sottratto al suo letargo secolare.
Causa la nube eruttiva, è scesa una notte più buia di quando mancano luna e stelle. Molti, al fioco chiarore delle lucerne, attendono la fine del cataclisma nelle cantine e sotto le volte dei criptoportici. Ma i più, orientandosi a stento in un panorama cittadino completamente stravolto (il livello delle scorie è ormai giunto ai primi piani delle case), stanno abbandonando Pompei con ciò che di più prezioso sono riusciti a recuperare. Chi col suo gruzzolo di monete e con indosso i gioielli, chi su carretti stracarichi di altri beni che avanzano a fatica nell’ammasso di depositi vulcanici.
La porta prossima al foro e le due a Sud, dove iniziano le strade verso Stabia e Nocera, sono state prese d’assalto. Presso quelle a settentrione, i fuggiaschi in uscita si scontrano con i reduci dalle campagne e dal suburbio, questi ultimi cercando illusoria protezione all’interno delle mura ancora in piedi. Quanto agli abitanti dei quartieri ad Est, dove l’anfiteatro è già diventato una conca uniforme, hanno dovuto scegliere le uscite verso Nola e Sarno. Fra tanto caos c’è chi, sperando in una fuga via mare, s’accoda ai flussi diretti al sobborgo marittimo.
Ai bordi delle vie, dove s’allineano le necropoli, ora emerge dalle scorie vulcaniche solo la sommità dei mausolei più sontuosi, mentre pianti e lamenti di chi s’aggira alla cieca nell’oscurità interrotta soltanto dalle fiammate del vulcano e dalle torce sembrano evocare le pietose cerimonie di accompagnamento ai morti. Stavolta però il compianto è rivolto a sé stessi: quanti degli ancora vivi vedranno l’alba di domani?
E quasi s’invidiano quei trapassati recenti o antichi: personaggi pubblici, magistrati, matrone benemerite, membri di famiglie illustri, liberti arricchiti… E poi osti e fornai, lavandai e tintori, orticoltori e pescivendoli, medici e banchieri, vasai e profumieri, facchini e gladiatori, schiavi e prostitute, adulti e bambini… quanti hanno trascorso l’esistenza sotto questo cielo ora nemico. Almeno a loro non sono mancati gli onori funebri ed è stato risparmiato l’orrore presente.
Spostiamoci a occidente, lungo la costa verso Napoli. Le sopraggiunte nubi ardenti impregnate di gas letali non danno scampo neppure agli ercolanesi ancora rimasti nella loro cittadina e una morte istantanea coglie uomini, donne e bambini nei fornici tra le mura e la marina, dove per imbarcarsi attendevano il placarsi del maremoto (a distanza di due millenni circa, centinaia di loro scheletri nelle pose più disperate forniranno un impressionante documento su cui meditare).
Ercolano, la piccola tranquilla Ercolano orgogliosa dei suoi monumenti eretti dalla munifica famiglia dei Balbi, scompare sotto una coltre di detriti fangosi alta quasi venti metri, che solidificandosi assumerà la consistenza del tufo. E proprio da qui, nel XVIII secolo, regnanti i Borbone, avrà inizio la fecondissima ed esaltante stagione degli scavi vesuviani che influenzerà profondamente studi, cultura, arti e moda di quel secolo e del successivo.
Intanto, al lato opposto del golfo, cosa sta succedendo a Stabia, decantata per le sue acque termali e sparsa in ville sontuose? Raggiunta anch’essa dalla pioggia letale, condivide la sorte delle città sorelle. La sua fama postuma sarà legata alle memorie dell’enciclopedico scrittore e ammiraglio partito con una quadrireme in soccorso delle popolazioni vesuviane e a quelle del brillante avvocato, poi console e governatore di Bitinia e Ponto sotto Traiano, autore di due celebri lettere a Tacito nelle quali descrive l’eruzione e la tragica fine dello zio sulla costa stabiana.
Quanto alla data tradizionale del cataclisma, quel 24 agosto del 79 d. C., da tempo messa in dubbio dopo i ritrovamenti, nell’area vesuviana, di reperti vegetali e d’altro genere più consoni alla stagione autunnale, una scritta a carboncino rinvenuta nei recenti scavi a Pompei ha confermato l’ipotesi degli studiosi che la spostavano in ottobre, e tale appare nelle opere dei nostri due autori.