Zingaretti, le dimissioni e la necessità di un congresso del Pd
Le dimissioni di Nicola Zingaretti da segretario del Pd sono arrivate il 4 marzo 2021, via facebook, con parole inusitate di sdegno e insofferenza per il solitamente sorridente, e spesso accusato di essere troppo accomodante, politico romano: «Lo stillicidio non finisce. Mi vergogno che nel Pd, partito di cui sono segretario, da 20 giorni si parli solo di poltrone e primarie, quando in Italia sta esplodendo la terza ondata del Covid, c’è il problema del lavoro, degli investimenti e la necessità di ricostruire una speranza soprattutto per le nuove generazioni».
Un comunicato molto duro, scritto mentre l’Istat certificava ciò che tutti possono vedere,ovvero l’aumento della povertà in Italia, che ha raggiunto nel 2020 i livelli del 2005.
Lo “stillicidio” che ha logorato Zingaretti proviene dallo scontro in atto tra le correnti di un Partito Democratico che egli ha finora guidato nella fase più difficile, in seguito alla pesante sconfitta elettorale del 2018 guadagnata dalla segreteria di Matteo Renzi. L’ex sindaco di Firenze ha poi promosso la scissione di Italia Viva, ma molti dei suoi alleati sono comunque rimasti all’interno del Pd, raggruppati nella componente denominata “base riformista” e guidata da Roberto Guerini, attuale ministro della Difesa, e Luca Lotti. Anche il capogruppo del Pd al Senato, Andrea Marcucci, è espressione di questa area e molti altri ancora.
La nascita del governo Draghi non poteva non provocare scossoni agli equilibri di alcune forze politiche. È eclatante, ad esempio, la spaccatura e lo smarrimento tra i 5 Stelle con la nascita del movimento Controvento promosso da Davide Casaleggio, mentre l’opposizione più ragionata e inflessibile all’esecutivo di unità nazionale arriva da Alessandro Di Battista e da alcuni dei militanti della prima ora. L’investitura di Giuseppe Conte come capo politico del M5S, fortemente voluta dal “garante” Beppe Grillo, potrebbe fermare l’emorragia dei voti in uscita e attingere da quelli del Pd. Il sondaggio che ha destato l’allarme vede i dem andare al 14% dopo un processo di lenta risalita dalla caduta del 2018.
L’alleanza di centrodestra, invece, non si rompe, riesce a stare sia al governo ( Lega e Forza Italia) che all’opposizione (Fratelli d’Italia). Il partito guidato da Giorgia Meloni ( unica donna al vertice di una formazione politica) guadagna consensi nei sondaggi e attrae, a livello continentale, il leader ungherese Orban che ha rotto con il Partito popolare europeo.
Berlusconi assume una nuova popolarità, mentre Salvini sa gestire al meglio il nuovo ruolo del suo partito, che copre con Giancarlo Giorgetti un ministero centrale, quello allo Sviluppo economico, nella redazione del Recovery plan. Gli altri ministeri chiave sono in mano ai tecnici legati direttamente al presidente del consiglio. Il Pd, nel rimescolamento delle carte, ha perso il ruolo decisivo del ministero dell’Economia, ricoperto nel Conte 2 da Roberto Gualtieri, il quale ha saputo muoversi a livello di trattativa in Unione europea con lo stesso Conte, Paolo Gentiloni e David Sassoli.
Gualtieri appartiene alla generazione proveniente dalla scuola di formazione del Pci romano e dalla sua federazione giovanile che, poi, ha dato una classe dirigente a quell’area politica che si è ritrovata nell’Ulivo per finire al Pd. Una comunità frastagliata che va dall’ideologo Goffredo Bettini e da Walter Veltroni ad una serie di centri culturali e fondazioni fino, per avere un’idea, alla redazione di programmi popolari come Propaganda live sulla 7.
L’ormai ex ministro dell’economia sarebbe il candidato sindaco in pectore per il centro sinistra alle comunali di Roma. La sua eventuale nomina dovrebbe però confrontarsi con l’ostacolo rappresentato dalla Raggi, che Zingaretti, da presidente del Lazio, ha cercato di smussare allargando in questi giorni la maggioranza della giunta regionale ai 5 Stelle.
Le elezioni amministrative, comunque, causa Covid, sono slittate da maggio ad ottobre, lasciando qualche spiraglio alle trattative. Zingaretti è da sempre il candidato ideale per la Capitale ma non può lasciare il timone della Regione. Da segretario nazionale del Pd voleva andare al voto dopo la caduta del governo Conte 1 ma poi ha seguito la linea realistica dell’alleanza del Conte 2.
Il segretario dimissionario non ha potuto promuovere, nello stato di emergenza, un congresso incentrato sulla identità del partito, sui contenuti prima ancora delle alleanze. Ha sostenuto una riforma elettorale favorevole al ritorno al sistema proporzionale, perno del Conte 2, ma ora deve gestire la forte pressione per il mantenimento di un maggioritario rafforzato, che comporterebbe , quindi, la necessità di promuovere un vasto raggruppamento “riformista”, cioè con tutti dentro, compresi i fuoriusciti liberal, tipo Calenda, e i renziani, per conquistare la maggioranza di un parlamento con un numero ridotto di senatori e deputati. Durante la sua segreteria Zingaretti non ha potuto neanche spostare, come aveva annunciato, la sede nazionale del partito dal centro alla periferia di Roma.
Lo scontro interno, alla fine, si è consumato sulla carica di vicesegretario che “base riformista” vuole per sé, dopo che Andrea Orlando è diventato Ministro del Lavoro. Ci sono, inoltre, dissensi sulla data delle primarie del partito, che gli “ex renziani” vorrebbero entro il 2021 mentre Zingaretti propone di mantenere al 2023, dopo un congresso bastato su idee e tesi.
Sarà probabilmente l’indizione di tale congresso il perno centrale dell’assemblea generale del Pd prevista per il 13 e 14 marzo, dove le componenti sono molto più numerose delle fazioni pro segretario o ex renziane, come ad esempio quella di Franceschini, ministro della Cultura, e la sinistra di Orfini. Una geografia di posizioni compatibile con un grande partito plurale, ma che ora, secondo i sondaggi, raccoglie consensi molto limitati ed è a rischio tenuta. Zingaretti è stato esplicito nel definire il rischio di implosione: «Il Pd non può rimanere impantanato per mesi a causa in una guerriglia quotidiana. Questo, sì, ucciderebbe il Pd».
Domenica 14 marzo si vedrà quindi se le dimissioni del segretario saranno definitive e quale orientamento seguirà il suo partito, che Zingaretti definisce ancora in termini di “comunità”. Un ulteriore “democrack” avrebbe conseguenze significative sugli equilibri del governo Draghi e le sue scelte determinati per il Recovery plan .
Tra le buone notizie c’è, comunque, la decisione della Ue di sospendere le regole del Patto di stabilità fino a tutto il 2022. Ecco, ad esempio, un tema centrale da congresso: si tratta solo di sospendere o, invece, cambiare le norme che hanno imposto l’austerità nel nostro Paese? E l’elenco potrebbe continuare