Zi’ Concetta: ogni ruga una storia

I piccoli del Vangelo sono in mezzo a noi. Abbiamo occhi per scoprirli?
napoli 1944

Da bambina, nell’estrarle un molare, le avevano sfigurato per sempre la guancia destra. Era, assieme al fatto che non si era sposata, l’unico segno di un antico dolore, che peraltro non fece mai pesare. Esso anzi si trasformò in delicatezza d’animo, che la portava a interessarsi dei più disgraziati, dei poveri. Per il resto, la ricordo sempre allegra e piena di vita. Questa era zi’ Concetta.

 

Nel suo piccolo, sperimentò le persecuzioni per il Vangelo da parte dei suoi stessi genitori (cioè i miei nonni), i quali, finché vissero, ostacolarono sempre le sue pratiche religiose, non risparmiando i colpi di bastone. Lei, mite, talvolta si sobbarcava a fatiche sfibranti, prevenendo quasi i loro desideri, per non dare adito a rimproveri; ma sembrava che essi moltiplicassero apposta i loro comandi per impedirle di correre in chiesa.

 

Per punirla del suo carattere ribelle (in realtà era inflessibilità nel mettere al primo posto le ragioni di Dio), arrivarono ad affidarla, una volta, ad un mendicante cieco che suonava il violino per strada. Il suo compito: cantare canzonette alla moda, e assieme chiedere l’elemosina. Ancora oggi non riesco a cancellare dalla memoria il tono di profondo dolore con cui zi’ Concetta mi fece questa rara confidenza.

 

Da quando morì mia nonna, zi’ Concetta era di casa da noi: attiva, vivace, infaticabile nell’aiutare mamma, la quale era sempre indaffarata dacché noi fratelli eravamo diventati sei. Non si aspettava – né ebbe – ringraziamenti (era destino che, anche da noi, il suo fosse l’ultimo posto!). In compenso c’eravamo noi ragazzi a ricambiare il suo affetto. In particolare, io e mia sorella Dora entrammo a far parte del suo mondo mistico: non c’era funzione o processione rionale alle quali noi tre non prendessimo parte.

 

Oltre ai normali lavori di casa, zi’ Concetta dedicava il tempo residuo a cucire e a sferruzzare per noi. Quanto a lei, le bastava lo stretto necessario: non un fronzolo in più, sempre modesta e dignitosa nel vestire. I pochi risparmi li impiegava per farci piccoli doni, da lei stessa confezionati in gran segreto con carta, colla e altre minuzie: cestellini variopinti con dentro una caramella o dei semi di zucca… minuscoli capolavori che ci presentava nel giorno della festa come chissà quale meraviglia, godendo delle nostre esagerate manifestazioni di sorpresa.

 

Così negli anni spensierati della nostra fanciullezza. Poi la guerra. Di quel terribile periodo ricordo le privazioni, le tessere annonarie, le file interminabili davanti ai negozi. Dal momento che mi ero impiegata e gli altri miei fratelli andavano scuola, toccava a zi’ Concetta il compito di procurarci un po’ di cibo. Se ne partiva di primo mattino munita di un seggiolino per riposarsi durante le lunghe ore di attesa, per poi tornare sfinita ma trionfante con quel che le riusciva di ottenere.

 

Dopo il diluvio di bombardamenti che piovve su Napoli, sfollammo tutti, lei compresa, in campagna: a Caiazzo, presso il Volturno. Era d’agosto, e dopo l’orrore delle distruzioni e dei morti che ci eravamo lasciati indietro, i primi tempi risultarono una pausa di serenità per non dire una inaspettata vacanza, soprattutto per noi giovani. Inoltre la convivenza con i tedeschi era pacifica, e il cibo più abbondante che non a Napoli. Anche lì zi’ Concetta doveva rivelarsi il cuore della nostra piccola comunità. Ci riuniva ogni giorno per pregare, coinvolgendo altri sfollati ed anche contadini del posto; ci esortava a sperare in Dio, pur in mezzo a quelle prove, nella fine della guerra, nel ritorno alle proprie case…

 

Dopo l’8 settembre del ’43, con lo scatenarsi dell’ira tedesca sotto forma di rappresaglie e deportazioni, passammo bruscamente dalla gioia dell’armistizio a nuovi terrori. Tremavamo ad ogni passo sul selciato, a motivo dei continui rastrellamenti: noi giovani, nascosti nel solaio della casetta che ci ospitava; gli anziani, invece, giù al pian terreno.

In prima fila tra gli inabili, zi’ Concetta: erano suoi i dinieghi e le proteste più fermi alle intimazioni dei soldati. Ed io, che con il cuore in gola spiavo attraverso gli interstizi del solaio di legno, vedevo in quei momenti il suo volto deforme quasi trasfigurarsi, diventare bellissimo. Sono certa che, se fosse stato necessario, si sarebbe offerta in cambio della nostra salvezza. Incalzando ancor più il pericolo, fummo costretti a nascondereci sui monti vicini, insieme a buona parte della gente del luogo. Dei contadini ci ospitarono nel fienile d’una fattoria isolata, tra folte macchie di castagni, dove passammo giorni e giorni, cibandoci quasi solo di frutta acerba.

 

Eravamo diventati irriconoscibili, l’aspetto denutrito, sporco e lacero. Non speravamo più di rivedere Napoli, anche perché correva voce che la città fosse stata tutta distrutta. Solo zi’ Concetta continuava a mantenere la calma. E quando riusciva a riunirci per una preghiera comune, vedevamo pian piano stemperarsi la nostra angoscia nel ritmo placido delle avemarie.

Finalmente non sentimmo più sparare se non da molto lontano, ed un pastore venne ad avvisarci che gli americani erano arrivati in pianura: potevamo dunque lasciare il nostro asilo. Qualcuno, timidamente, cominciò a radunare moglie, figli e vecchi, e ad avviarsi giù per i boschi; anche noi li imitammo, in un esodo che si snodava lento per il sentiero. Giunti al fondovalle, ci imbattemmo in una camionetta occupata da militari americani, che cominciarono a distribuirci cioccolata e sorrisi, come in un film. Poi, in marcia verso Napoli: a piedi, tra cadaveri, distruzioni, e un viavai scomposto di automezzi e di militari di diverse nazionalità. Durante le soste, difficilmente zi’ Concetta riposava: la vedevo andare in giro tra le truppe alleate per rimediare qualcosa da mangiare, che poi si affrettava a distribuire tra noi. Come Dio volle, dopo due giorni, rivedemmo Napoli: eravamo sfiniti, emaciati, coi piedi coperti di vesciche, ma salvi. Zi’ Concetta riprese il suo posto nelle file davanti ai negozi; ma gli stenti, le continue paure non avevano giovato alla salute di nessuno di noi, e men che mai alla sua. Fatto sta che un giorno in cui lei era uscita col suo inseparabile seggiolino fu colta da un malore per strada, e chi la soccorse ci riferì che il suo ultimo pensiero era stato per noi.

 

Son voluta tornare, dopo tanti anni, in quella chiesa di San Vincenzo alla Sanità dove, piccoline, condividevamo con zi’ Concetta le sue scappate per Gesù, come lei amava chiamarle. Nell’onda dei ricordi, ad un tratto ho trasalito scorgendo, in un banco laterale al mio, un’esile figura di donnetta dai capelli grigi riuniti in crocchia. Mi son sporta un po’ avanti, spinta da un pensiero assurdo, per scrutarne i lineamenti: non era lei. E tuttavia, salvo la guancia sfigurata, quella vecchietta qualunque – ogni ruga una storia – avrebbe potuto essere benissimo una zi’ Concetta. Quante ce ne saranno, come lei, in mezzo a noi?

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