Zanzotto: la poesia balbetta se si mette all’ascolto

Scompare un grande poeta del dopoguerra. Esordì con Ungaretti, collaborò con Fellini e non smise di parlare della natura. Un suo ritratto e una sua poesia su "Novecento letterario italiano ed europeo" di Città Nuova
Andrea Zanzotto

Si è spento il 18 presso l’ospedale di Conegliano (Treviso) il poeta Andrea Zanzotto, dopo aver festeggiato appena da una settimana 90 anni. Finissimo cultore del linguaggio la sua poesia si arricchì nel tempo delle tonalità del francese e del veneto. Dietro il paesaggio – la sua opera prima che gli valse il premio San Babila in  una giuria composta tra gli altri da Ungaretti, Quasimodo e Montale –, anticipa alcuni dei temi della sua produzione letteraria con un’attenzione costante ai boschi, la natura, i cieli e la campagna veneta.

 

E della poetica e dell’uso del linguaggio di una delle voci più importanti del Novecento letterario vi riproponiamo quanto scrive in proposito Giovanni Casoli nel secondo volume di Novecento letterario italiano ed europeo per Città Nuova. Non senza farla accompagnare da una sua poesia…

 

«Scrittore intelligentissimo e coltissimo soprattutto quanto alla contemporaneità, di cui appare, particolarmente nella psicologia e nella linguistica, un esploratore “sub” e un rabdomante, Zanzotto è poeta fortemente atipico e non inquadrabile nelle precedenti o simultanee categorie critiche, un poeta vero e grande in molti testi, purtroppo accessibili solo a un ristretto pubblico in grado di discendére con lui negli inferi della lingua e della cultura psicoanalitica e strutturata freud-lacaniana e, servendosi di una grande, varia e stratificata attrezzatura culturale, di ripercorrerne, sostenendolo, il cammino desolato e accidentato di franamento e arrampicamento l deserto di rovine che il poeta percorre incessantemente. 
 

«A partire da un substrato di lingua coltissima di tradizione petrarchesco-leopardiana, con arricchimenti sia nell’alto linguaggio poetico europeo, da Holderlin (profeta anche della poesia zanzottiana con il verso «un segno noi siamo senza significato» — che si può pure tradurre «senza interpretazione») a Rilke, non dimenticando D’Annunzio e poi l’ermetismo, ma soprattutto Ungaretti, che lo sostenne agli inizi; sia nell’uso sagace del latino come “lingua morta” che rimprovera la morta lingua del parlare comune, e legittima l’uso di qualunque trasgressivo preziosismo, tecnicismo o altra azione deformante sul linguaggio corrente (corrivo); sia nel ripescaggio del dialetto veneto di Pieve di Soligo, in estinzione, quale ritorno al parlare materno  (petèl) contro, anche, le trasgressioni conformistiche, che riporta alla genesi, al balbettamento, a “creazione” del linguaggio.

 

A partire da tutto ciò e da molto altro (capacità di drammatizzazione teatrale del dettato poetico, infinito gioco di rimandi, allusioni, citazioni ironizzate, “finte” verbali che inventano o disinventano parole, scambiano i ruoli tra le parti del discorso), con estrema perizia costruttiva-espressiva ed enorme, quasi allucinata lucidità (di un effetto allucinogeno dei versi di Zanzotto ha parlato Montale), Zanzotto vince la sua iniziale «tentazione bucolica» (Spagnoletti) di fare del paesaggio della propria terra un rifugio e una scelta con l storia (Dietro il paesaggio, 1951), e a partire da Vocativo (1957), abbandonando sia l’ermetismo che ogni tentazione di realismo, volgendosi a esplorare il paesaggio interiore-esteriore di Pieve, e di se stesso, come «diaframma dell’anima»…

 

Per Zanzotto la poesia tenta «qualche cosa che avrà una sua balbuzie; come quasi tutto oggi, se non pontifica fanaticamente o non tace in perfidia, balbetta», ma balbetta positivamente, «come massima disponibilità all’ascolto», con quell’ «umiltà», dice Zanzotto, che Hòlderlin divenuto pazzo dichiarava nei suoi tardi scritti, con disponibilità «a un certo amore-dolore (…) e forse anche a una pura perdita». Così l’«oltranza-oltraggio» (dal tardolatino ultraticum) di Zanzotto rade al suolo ogni ostacolo nel «teatro vuoto» (Mengaldo) dell’io, strania ogni normalità linguistica costituita e si pone, per novità esplorativa, euristica, inventiva, a un livello e in una modalità, in poesia, che è pari solo, in prosa, al laboratorio linguistico di Gadda. Ed è un titolo di sommo onore che questo tragico-sublime gioco di metamorfosi e apocalisse linguistica sia danzato da un ateo anche molto anticlericale (come dimostra la peraltro stupefacente, mirabile Pasqua a Pieve di Soligo, in Pasqua, 1973) con un senso del sacro da fare invidia a moltissimi devot j: «Il sacro non viene distrutto, ma passa alle spalle, s’interra. Sussiste nell’oscurità, si sfa in una legione-miriade di meschini, chitinosi, fatui demoni, o libidines o virus, tanto più capaci di ledere quanto meno presenti a una coscienza che crede di aver tutto dominato e demistificato. Il sacro (il limite) bisogna averlo davanti agli occhi, anche col pericolo di rimanerne abbagliati, bisogna lottare contro di esso per vincerlo ed esserne vinti insieme: ai piedi della Scala. La dissacrazione operata con brevi gesticoli, con slogan pubblicitari, con balletti mimetici ecc., non dico è destinata a fallire, ma nemmeno dà inizio a una operazione che abbia un senso qualunque».

 

Perciò non ci sentiamo di condividere l’affermazione dell’acutissimo interprete Stefano Agosti, secondo cui a un certo punto della poesia di Zanzotto «il significante non è più collegato a un significato» e «si istituisce esso stesso come depositano e produttore di senso» emarginando l’identità-io; sia perché è Zanzotto stesso a denunciare, nella citata Pasqua a Pieve di Soligo, ,«il significante che è leader feroce del mondo» e non certo per tornare indietro all’ erroneo-oppressivo rapporto conformistico tra significante e significato nelle parole alienate, ma per muoversi in avanti con andatura «fluente, eraclitea» (Contini, 1978) verso un’impensabile, un’nominabile eppure necessaria ulteriore avventura; sia perché lo sganciamento non istituisce una nuova formalizzazione (o tirannia), ma un umile, amante-dolorante ascolto.

 

Quanto a lungo

 

Quanto a lungo tra il grano e tra il vento

di quelle soffitte
più alte, più estese che il cielo,
quanto a lungo vi ho lasciate
mie scritture, miei rischi appassiti.
Con l’angelo e con la chimera
con l’antico strumento
col diario e col dramma
che giocano le notti
a vicenda col sole
vi ho lasciate lassù perché salvaste
dalle ustioni della luce
il mio tetto incerto
comignoli disorientati
le terrazze ove cammina impazzita la gran-

dine, ombra unica dell’inverno,

ombra tra i dèmoni del ghiaccio.

Tarme e farfalle dannose
e talpe scendendo al letargo

Vi appresero e vi affinarono,
voi sagittario e capricorno
inclinarono le fredde lance
e l‘acquario temperò nei suoi silenzi

nelle sue trasparenze
un anno stillante di sangue, una mia

perdita inesplicabile.

 

Già per voi con tinte sublimi

di fresche antenne e tetti

s’alzano intorno i giorni nuovi,

già alcuno s’alza e scuote

le muffe e le nevi dai mari;

e se a voi salgo per cornici e corde

verso il prisma che vi discerne

verso l’aurora che v’ospita,

l mio cuore trafitto dal futuro

non cura i lampi e le catene

che ancora premono ai confini.

 

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