Yemen. Kashoggi e Hodeida

Che cosa c’entra la vicenda del giornalista saudita ucciso nel consolato di Istanbul con la battaglia attualmente in corso per il controllo del porto yemenita? C’entrano gli Stati Uniti, sempre loro

La guerra dello Yemen ogni tanto riprende spazio, non dico nelle prime pagine dei giornali, ma almeno nelle pagine interne. Una delle peggiori catastrofi umanitarie del secolo XXI e uno dei luoghi di conflitto più infiammati in cui gli attori in campo non sempre hanno intenti condivisi pur stando dalla stessa parte della barriera. Yemen, dove si scontrano Iran e Arabia Saudita, sciiti e sunniti, ma con la presenza in filigrana di Stati Uniti e di altri attori internazionali.

Muhammad bin Salman
Muhammad bin Salman

Il fatto nuovo è che gli Stati Uniti hanno alzato la voce contro l’Arabia Saudita, e in particolare contro il suo uomo forte Mbs, Muhammad Bin Salman, lo spregiudicato principe ereditario, finora grande alleato di Trump e di Netanyahu nello scacchiere mediorientale: la figuraccia fatta da Mbs a Istanbul con la “scomparsa” del giornalista Khashoggi, editorialista del Washington Post, ha avuto una tale eco nei media statunitensi da obbligare il presidente Trump a intervenire, imponendo una dead line per una volta positiva, almeno in apparenza, cioè la fine della guerra entro un mese. Una guerra sporca, in cui gli sciiti houthi sostenuti dall’Iran fanno fronte a una coalizione eterogenea che associa soprattutto sauditi ed Emirato di Abu Dhabi, con l’appoggio degli alleati statunitensi e, in diversa misura, di alcuni Stati arabi e persino europei, che spesso “si limitano” a vendere armi al regime saudita.

L’episodio di Khashoggi è solo l’ultima goccia di una crescente insofferenza di Trump per un alleato col quale, nel corso della sua prima visita all’estero da presidente, è stato stretto un patto di ferro con ordini d’armi di Riad a Washington per 110 miliardi di dollari. Ma per dar corso all’accordo, essenziale per le industrie belliche statunitensi, Trump ha bisogno dell’accordo della Camera dei rappresentanti, che come si sa è ormai a maggioranza democratica. Quindi deve dimostrare al suo popolo e ai suoi rappresentanti che gli Usa non transigono su alcuni dossier “sensibili”, come il rispetto delle regole fondamentali del fair play diplomatico e del diritto umanitario. L’attenzione ai sondaggi sembra fondamentale in questa scelta “pacifista”, non certo questioni “morali” o “solidaristiche”, sia chiaro.

C’è poi un elemento da non sottovalutare, e cioè la frustrazione degli statunitensi per la dimostrazione di inefficienza degli eserciti sauditi e di Abu Dhabi, che comandano una potente coalizione araba anti houthi-iraniani. Coalizione che, nonostante abbia una schiacciante supremazia di mezzi sul campo, non riesce a vincere una “guerretta”. Il fatto è che non si sono valutati bene la resistenza degli houthi, l’afflusso di armi dall’Iran e, soprattutto, la composizione degli eserciti sauditi ed emiratini: in sostanza sono mercenari che non vogliono rischiare la propria vita sul campo di battaglia. I cittadini sauditi o emiratini non scenderanno mai sul campo a combattere rischiando la loro vita.

Ammar Ahmed

Fatto sta che ora la battaglia è concentrata sul porto di Hodeida: «Un’operazione militare è iniziata e le forze armate nazionali avanzano verso il nord e ad ovest della città di Hodeida, su tutti i fronti, con il sostegno della coalizione araba», dice un comunicato del governo del presidente yemenita Abd Rabbo Mansour Hadi. In questo momento si stanno verificando intensi combattimenti che stanno provocando la morte di centinaia di persone. Secondo fonti mediche, i combattimenti della sola giornata del 9 novembre hanno ucciso 110 ribelli e 22 morti tra le forze lealiste (France Presse), aggiungendo che il numero di combattenti morti su entrambe le parti ha raggiunto i 382 dall’inizio del mese. E senza considerare le perdite civili, incalcolabili.

Hodeida è nelle mani dei ribelli dal 2014, ed è un punto strategico attraverso il quale passa quasi il 70% degli aiuti umanitari per il suo accesso diretto al Mar Rosso. Secondo il Consiglio norvegese per i rifugiati, «i civili hanno riferito attacchi aerei (anche con bombe fabbricate, come si sa, dalla RWM di Iglesias, ndr), la presenza di jet a bassa quota e di elicotteri Apache, proiettili di mortaio e missioni nella periferia della città, e a 5 chilometri dal porto principale del Paese».

In vista dell’ultimatum statunitense, che vuole mettere attorno a un tavolo i contendenti, le forze in campo stanno combattendo per poter negoziare da posizioni più favorevoli. Questa è la situazione attuale, in cui a rimetterci saranno come sempre i civili e gli inermi.

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