X Factor: tripudio pop
Mentre Carlo Conti già affila le armi in vista del prossimo Sanremone, la concorrenza ha appena calato gli assi – e il sipario – sull’edizione del decennale.
Un gran finale fatto apposta per ribadire su quali corde si giochi oggi il rapporto fra musica e tivù: non uno scambio di input nutritI dall’arte o dalla cultura pop (neanche quella più bassa), non una forma di comunicazione emotiva, ma semplicemente l’esaltazione magniloquente del concetto di spettacolo.
Anche quest’anno i numeri hanno dato ragione a questa logica, sicché l’impeccabile Cattelan e i suoi sodali hanno di che bearsene. Con buona pace di chi pensa (e sono tanti) che questi tipi d’ambaradan mediatici servano alla musica quanto la sabbia nel deserto.
E tuttavia quanto messo in vetrina sul megapalco milanese (un mostro da 1800 mq) non ha tradito le attese, così come i contorni di superospiti del calibro di Ligabue (ah, cosa non si fa per promuoversi…) e One Republic; per non dire delle requisitorie dei giudici, quest’anno oscillanti tra la lunare effervescenza di Arisa e Fedez e la spocchiosità snobistica di Manuel Agnelli.
Quanto alla trippa questa decima edizione ha confermato la vocazione tipica dei talent d’ogni latitudine: quella di offrire un accesso democratico (ma non sempre realmente meritocratico) al successo. La sempiterna regola dell’uno-su-mille-ce-la-fa.
E la favola di questo decimo X Factor all’italiana si chiama Soul System: un manipolo di ragazzi cresciuti fra Brescia e Verona, tutti di origini ghanesi, tranne Alberto, il batterista. Ma è possibile che anche per Gaia ed Eva questa finale abbia segnato l’incipit d’una bella carriera.
Avanti i prossimi…