X Factor: la fabbrica dei sogni
Ho guardato la finale di X Factor, ieri sera. Quasi un obbligo, per chi fa il mio mestiere; certo non un piacere, almeno per chi lo fa da troppo tempo…. Ma mi toccava, e mi ci son messo di buzzo buono. E devo dire che ne sono sopravvissuto senza alcun problema. Perché il collaudato format anglosassone continua a funzionare, nonostante sia sempre più simile a uno show di Las Vegas che non a una kermesse canora in stile sanremese. In ogni caso una fabbrica in grado ogni anno di pescare talenti grezzi, per poi ‒ dopo adeguata lavorazione e lucidatura mediatica ‒ trasformarli in nuove stelline (nebulizzando tutti gli altri in polveri meteoritiche). Il tutto condito dal consueto vezzo di far passare per evento qualcosa che sta già svaporando nel preciso istante della messa in onda. Come a Sanremo, anzi, ben più che a Sanremo. E in effetti X Factor cos’altro è, se non un Sanremo.2? Vabbè.
Un gran finale senza dubbio: preciso come un metronomo svizzero, e di gran lunga più agile, dinamico e moderno rispetto al Barnum festivaliero; dove tutto scorre luccicando e abbagliando: coi quattro finalisti a irrorare grinta ed emozioni, e i loro tutor a dispensar entusiasmi, complimentoni e gengive. Tutto perfetto ed esagerato: come le bellissime arance del mio supermercato; che però a spremerle non ne ricavi che acquetta zuccherata. Epperò quanta cura in ogni dettaglio dello show, e quanta grinta e determinazione in questi ragazzini, agli esordi eppure già stupefacenti nelle intonazioni e nelle movenze. Come se ciascuno di loro non fosse nato che per questa notte.
Del resto ogni generazione ha i suoi sogni da sognare e i suoi piccoli miti da emulare. L’unico problema è che sempre più raramente è lei a sceglierseli, anche se glielo si fa credere con molta meno fatica di un tempo. Del resto i ragazzotti di X Factor sono solo pedine, sostanzialmente interscambiabili (non a caso ogni anno ne servono di nuove per tener vivo il gioco). Dunque, più che i loro, i sogni da preservare sono quelli di chi li guarda specchiandovisi, e magari sperando di riuscire a prenderne il posto al prossimo giro. C’è qualcosa di più genuinamente pop di questo?
A X Factor si entra pulcini e si esce galletti (se ce la si fa) o si torna alla qualunquità di chi è destinato ad attraversare la vita navigandola sottotraccia. Ma questa ennesima reincarnazione della sempiterna macchina delle illusioni proprio a questo serve: insegnare alla generazione adolescenziale in corso che “i sogni son desideri” come cantava la Cenerentola disneyana, e che dunque – almeno quelli supportati da talento e una buona dose di fortuna – possono realizzarsi. Un contributo da non sottovalutarsi, tanto più in questi tempi depressi e deprimenti, per quanto si tratti di un postulato basato su presupposti alquanto sdrucciolevoli se non taroccati.
In ogni caso da quest’ultima infornata di talentuosi virgulti è emerso tale Giosada, un rockettaro barese che se ben gestito potrebbe guadagnarsi un luminoso futuro (ma vedrete che anche il soul-man palermitano Davide Sciortino riuscirà a farsi largo, così come il giovanissimo duo degli Urban Strangers, probabilmente i più trendy del lotto proposto in questa nona edizione).
Ma oltre che a foraggiare la macchina mediatica e i brulli pascoli del music-business odierno, a X Factor quest’anno è toccato anche assolvere un compito ben più impervio: raccontare a tutti noi, popolino d’Occidente, che va tutto bene; che non c’è Bataclan, crisi umanitaria o summit climatico che tenga; va tutto bene, finché si può sognare non c’è nulla di cui preoccuparsi sul serio; per quanto piccoli e in fondo banali siano gli orizzonti proposti, il mondo è ancora colorato e vitale come una nuova canzone dei Coldplay (i super-ospiti di questa finale). Dunque, no problem, raga.
Insomma, anche quest’anno andata: ora non resta che raccogliere i coriandoli e riaprire gli occhi.