Woolf: Austen, Brontё e l’Ottocento
Jane Austen
«Questo forse era il più grande miracolo di tutti. Una donna, agli inizi dell’800, che scriveva senza odio, senza amarezza, senza paura, senza protestare, senza predicare». Con queste parole Virginia Woolf (1882-1941) nel saggio Una stanza tutta per sé (Feltrinelli, 2017) descrive Jane Austen (1775-1817), la scrittrice vissuta un secolo prima, che era riuscita a sconfiggere nella sua mente tutti gli ostacoli, liberandosi da ciò che la società le imponeva in quanto femmina. Forse l’unico desiderio inesaudito di Jane Austen fu quello di viaggiare.
A quei tempi una donna non poteva uscire da sola, era limitata nella vita che poteva condurre, ma forse la sua stessa natura pacata «non le faceva desiderare ciò che non aveva», secondo quanto affermato dalla Woolf. L’unico ostacolo tra la Austen e il pieno sviluppo del suo talento poteva essere il cigolio della porta che annunciava l’arrivo di qualcuno, per cui lei doveva nascondere il suo manoscritto. Tra l’altro, Jane Austen non aveva un proprio studio, ma doveva scrivere nel viavai del salotto.
Forse si vergognava un po’ nel lavorare a Orgoglio e pregiudizio (Einaudi, 2014), una storia differente da tante altre perché non trattava di attualità e di guerre napoleoniche. Nelle sue descrizioni, infatti, le milizie erano solo uno sfondo per le eroine femminili di provincia, per l’universo femminile, le storie d’amore e di vita quotidiana, che forniscono uno spaccato dettagliato sulla vita sociale dell’epoca.
Eppure scrivere le dava piacere, non si può negare che i suoi testi le portassero felicità. Scrive sempre Virginia Woolf: «Il suo talento e il suo ambiente [di campagna] si accordavano alla perfezione», col risultato che le parole dei suoi libri erano intrise di lei, tanto da poterla paragonare senza difficoltà a un genio della prosa quale Shakespeare. Era lontana dalla città e quindi meno succube alle pressioni sociali.
Charlotte Brontё
«Dubito però che si possa affermare lo stesso di Charlotte Brontё» (1816-1855), autrice con cui forse la stessa Woolf si immedesima di più. In Jane Eyre (Einaudi, 2017) Charlotte, nei panni di Jane, scrive: «Chiunque mi può biasimare, se vuole». È da questa frase che Virginia inizia la sua riflessione, chiedendosi prima di tutto perché Jane senta su di sé questo giudizio.
La risposta sta nel suo desiderio di raggiungere la città, la vita che non ha mai visto, per fare pratica dell’esistenza. «Di solito si crede che le donne siano molto calme: ma le donne sentono tutto quanto sentono gli uomini – scrive la Brontë nel suo romanzo –; hanno bisogno di esercitare le loro facoltà e di trovare un campo per i loro sforzi, non meno dei loro fratelli […] è meschino da parte dei loro prossimi più privilegiati dire che esse dovrebbero limitarsi alla confezione di budini e di calze, a suonare il piano e ricamare borsette».
Le parole sono forti e dirette come la sua tempra, costretta a diventare di ferro per combattere con la società che la criticava. Lo stesso si potrebbe dire per Virginia Woolf, che nel saggio Una stanza tutta per sé parla degli studenti e dei professori di “Oxbridge”, luogo che chiaramente fa riferimento ad Oxford e Cambridge, università chiuse alle donne dell’epoca.
Tornando a Charlotte, Virginia condivide l’osservazione che nell’800 fosse difficile per una donna, nel mettere in pratica le proprie passioni, non farsi attivista, per permettere a sé stessa di continuare a fare ciò che amava rispondendo alle critiche e giustificandosi. La domanda a questo punto sarebbe: è giusto giustificarsi per qualcosa di naturale e legittimo? No. Infatti Charlotte era fortemente inquieta, come la Jane del suo romanzo. Desiderava e non raggiungeva.
Il tormento per la situazione in cui viveva non le concedeva di esprimere il proprio talento al massimo: «Ella scriverà con rabbia, quando dovrebbe scrivere tranquillamente […] È in conflitto con il suo destino. Ma come avrebbe potuto non morire giovane, contorta e frustrata?», afferma la Woolf.
Ma oltre la frustrazione, a far barcollare la purezza del talento dell’autrice è il distacco dalla realtà. È ovvio che i valori della vita reale debbano trovare un riflesso in quelli della narrazione, affinché tutto sia verosimile. Però i valori della vita reale dell’epoca erano «inventati dall’altro sesso». Ad esempio il calcio e lo sport erano “importanti”, la moda era “superficiale”. Un libro che trattava della guerra era stimabile, uno che parlava dei sentimenti in un salotto no. Eppure erano facce della stessa medaglia. È una concezione che si porta degli strascichi ancora oggi, sebbene il contesto storico e sociale si sia evoluto. All’epoca bastava sfogliare vecchi romanzi dimenticati, racconta la Woolf, per indovinare che l’autrice stava pensando ai critici mentre li scriveva.
Virginia comunque fantastica, vuole dare a Charlotte Brontë un possibile futuro. Come sarebbe potuta andare diversamente? Se avesse avuto 300 sterline l’anno a propria disposizione, i diritti dei propri romanzi (che svendette), una più grande conoscenza del mondo, un riconoscimento sociale, un luogo dove scrivere, ovvero “una stanza tutta per sé”, magari la sua vita avrebbe seguito un altro percorso. «Ma non le erano stati concessi; e dobbiamo accettare che tutti quegli ottimi romanzi, Villette, Emma, Cime tempestose, Middlemarch, sono stati scritti da donne la cui esperienza riguardava soltanto quella parte della vita che poteva entrare nella casa di un rispettabile pastore».
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«C’era sempre quell’affermazione – non puoi fare questo, non sei in grado di fare quello – da confutare, da vincere. […] Il bisogno di opporsi a tutto questo, di provare che non era vero, doveva significare una notevole tensione dell’animo, e una continua perdita di vitalità». (Virginia Woolf, Una stanza tutta per sé)