Woodstock: un mito rock lungo 50 anni
Woodstock, mezzo secolo dopo. Accanto a tante memorabili performance, quei tre giorni di “pace amore e musica” mostrarono al mondo tutte le idealità – ma anche le contraddizioni – compresse in una generazione giovanile che sbatteva in faccia al mondo la propria potenza sognatrice e visionaria. L’altra faccia della Luna su cui l’uomo era appena sbarcato, e l’alter ego del Vietnam, in quei giorni più che mai insanguinato.
Quel mezzo milione di giovani era solo la punta emersa di un immenso iceberg planetario; una moltitudine sinceramente convinta di poter cambiare il mondo senza pagarne un prezzo proporzionale (e anche per questo, a conti fatti, è accaduto piuttosto il contrario), ma quel pittoresco pantano floreale trapuntato d’eros libertario e stupefacenti, segnò probabilmente l’apogeo, e insieme, l’inizio del declino – anche sentimentale – di una subcultura che ancora oggi riverbera rimpianti, mitologie e nostalgie perfino in chi all’epoca non era neppure nato.
Il Festival attirò il gotha del rock dell’epoca, da Janis Joplin a Crosby Stills Nash & Young, da Santana agli Who, fino a Jimi Hendrix che concluse l’evento alle otto del mattino del 18 agosto con una memorabile performance. Insieme ai big, anche qualche carneade: alcuni destinati a passare come meteore, altri per i quali quel palco rappresentò un formidabile trampolino verso la gloria. E intorno a loro un oceano di sogni individuali e collettivi, d’avventure e d’aneddoti mirabolanti che chi c’era oggi conserva tra i ricordi più cari. Certo è che a mezzo secolo di distanza Woodstock resta il manifesto o la rappresentazione iconica di quella specie di esistenzialismo rockettaro costruito più sugli slogan, sui suoni e sulle immagini, che sulla sostanza.
Ma cosa è rimasto oggi di quel rock e dei suoi protagonisti? Polvere di stelle verrebbe da dire. Qualcuno, come Hendrix e la Joplin, ne è rimasto stritolato dai cingoli, altri, per quanto imbolsiti, ancora ci campano su. E di quei giovani? Certo è cambiato tutto quel che stava loro intorno: internet e la globalizzazione, migrazioni di massa e nazionalismi neofeudali; la paura, il disincanto e la precarietà, han preso il posto dell’immaginazione romantica che li faceva fremere di speranza. Molti di loro (comprese le moltitudini che a Woodstock c’erano solo spiritualmente) oggi votano Trump, adorano il nuovo sovranismo e postano slogan da baci Perugina su Facebook; i più furbi han fatto fortuna in politica, non di rado ribaltando le proprie ideologie primigenie senza dismetterne la retorica o l’arroganza. I loro nipoti invece, ascoltano la trap e fondano start-up, galleggiando in una società che da liquida s’avvia al gassoso.
Woodstock sembrava l’incipit di una nuova era, o per lo meno, la generazione che l’aveva partorito, sembrava incarnare l’aurora di una grande promessa: di lì a poco, insieme a qualche piccola conquista, avrebbe prodotto un buon numero di involuzioni, entropie, e talvolta anche di tragiche devianze. Se guardiamo ai suoi effetti reali, col senno di poi viene invece il sospetto che quella generazione sia stata solo una fortunosa eccezione nella lunga storia del mondo, frutto di una serie di quasi miracolose coincidenze sociologiche che sembrarono aprire per un attimo uno spiraglio su una specie di paradiso terrestre, per poi richiudersi poco dopo, col suono triste di tutte le occasioni mancate.
E tuttavia, anche se l’epopea di Woodstock riverbera oggi le sfuggenti sembianze di un sogno andato a male, la pur ingenua idealità che nutriva l’ultimo american dream realmente cosmopolita, ancora sopravvive nel profondo dei loro cuori e dei loro inconsci. E forse, anche nei nostri.