Wojtyla un papa mai prudente/2
Che cosa si può imputare, in quest’ambito, a un pastore ispirato dal misticismo e al tempo stesso dalla storia, che ha attraversato mezzo mondo per aprire l’umanità non solo all’idea del perdono e della speranza, ma anche della pace e della giustizia? Non credo sia facile, per nessuno, ignorare l’invettiva contro “la guerra del deserto”, in Iraq, o la drammatica richiesta di fermare le stragi nei Balcani; oppure la Sollicitudo rei socialis, in cui affronta con realismo i temi dell’egoismo e della prevaricazione; e il monito lanciato a proposito della “civiltà dell’amore”, che comincia dal riconoscere la sacralità della vita. Come dimenticare quel dito puntato su una delle più gravi tragedie del mondo quando grida «fermatevi di fronte al bambino»?
Non sarei ovviamente in grado di giudicare se il suo cammino abbia interpretato tutte le intenzioni di Dio, ma si può chiedere a un uomo, seppure vicario di Cristo, di essere più di Gesù? Cioè di colui che per farsi uguale a noi arrivò a dubitare del Padre? È un terreno che non so, francamente, a chi in assoluto appartenga, penso che quel cammino possa stare solo nella combinazione di dolore e parola, di speranza e di gesto, che fanno la nostra nudità di viventi dentro una vita, e quindi una Storia, che nasce e si concluderà in un mistero. Quella di Karol Wojtyla resta una lezione su come un travaglio di debolezze e di forze, di peccati e di redenzioni di continuo si misuri e rigeneri una condizione umana che comprende tutti: chi crede e non crede, cerca e dubita, spera o è indifferente. Poi, ci sarà sempre chi vivrà meno di un’esile farfalla, e più di una quercia.
È la nostra finitezza terrena, una lezione che quel Papa – testimone di fede e azione, vita e storia – non lasciò col tremito delle mani e della voce, , quasi a voler proclamare la più semplice, ma stringente delle verità: il nostro essere per la vita. “Siamo nati per vivere, non per morire”, aveva ammonito Giovanni XXIII. Anche se il male prende per sé tanta parte dell’esistenza, Giovanni Paolo, che intese richiamarsi all’ottimismo giovanneo e all’inquietudine paolina – non a caso volle riuniti i due nomi nel suo – non ci esorta a scommettere su Dio, a lanciare i dadi, ma a riconoscerlo nell’uomo, facendo tutt’uno di lui e di noi attraverso il Figlio, venuto a condividere la nostra umanità. E a quanti gli opponevano la questione del dolore, non rispose con strettoie teologiche, men che meno messianiche. Estraneo per cultura e per fede a vibrazioni estenuate, incognite, minacciose, invitò a «varcare la soglia della speranza». Sapendo che tutta la “contraddizione” era lì, al centro di una creazione consapevole e responsabile; per chi crede, confidente e in attesa.