Wojtek

È una bella stagione, l’autunno, in Polonia. La chiamano stagione d’oro, per via dei colori, del giallo e del rosso, di quel sentirsi addosso una strana tristezza, o piuttosto poesia, nel vederle scendere, in una danza leggera, che non è certo cadere di foglie dagli alberi, ma lasciarsi andare. Stagione bella e fredda, a dirla tutta, da camminare con le mani in tasca, il vento, preludio d’inverno, sulla faccia. Ed una giacca. Quest’ultima può sembrare una banalità. Chi volete che vada in giro senza giacca, a Varsavia, quando ci sono appena cinque gradi? Se Wojtek fosse meno modesto vi racconterebbe un episodio. Ma Wojtek parla poco; in compenso sorride molto. Un ragazzo trasparente, di quelli che si danno da fare per gli altri senza mettersi in mostra. Per questo, col suo permesso, vi racconterei io cosa gli è successo. È un giorno d’autunno a Varsavia, come si diceva. Wojtek ha deciso di andare a trovare un amico. Sale sull’autobus, il 521, e nota una donna dall’aspetto molto povero seduta vicino al finestrino. Di certo non sarà stato il solo ad accorgersi di lei. Gli occhi attenti dei più sensibili l’avranno subito vista. Gli occhi deboli degli indifferenti si saranno spostati altrove, magari sul finestrino, in cerca di qualcosa di meno triste da guardare: un albero, un cane, un passante. O la propria faccia riflessa sul vetro, ammesso che sia uno spettacolo meno triste rispecchiarsi nella propria indifferenza. Gli occhi dei disattenti potrebbero anche non averla vista. Tutti, però, l’hanno sentita. Ad essere precisi, hanno sentito quell’odore forte e sgradevole proveniente da dove è seduta. Per questo intorno a lei tutti i posti sono vuoti. Alcuni girano la testa con una smorfia di disappunto, altri si tappano il naso, c’è chi borbotta parole poco carine. Sarà pur povera, ma si potrebbe almeno lavare, suggerisce la ragione. Non avrà nemmeno l’acqua calda, suggerisce la pietà. Due forze opposte si disputano la direzione del prossimo passo di Wojtek. Una forza lo allontana dal profumo sgradevole, seguendo il movimento generale, l’altra lo spinge, contro corrente, verso la donna. Dall’equilibrio nasce la stasi. Rimane al suo posto. Se andrà via anche lui, lei rimarrà sola. Che tristezza. La miseria genera una specie di campo elettrico. Per alcuni è repulsiva. Altri, invece, si sentono attratti. Dipende dalla carica che ciascuno porta dentro. Wojtek la guarda e pensa: cosa posso fare per lei? Pregare, senz’altro. E poi? La donna di tanto in tanto si strofina le mani e cerca di ripararle nelle maniche di un maglioncino troppo sottile. Sente freddo, niente di strano, visto che non ha una giacca. Wojtek si mette le mani in tasca per tirar fuori i guanti e darglieli, ma li ha dimenticati a casa. Peccato, non era una cattiva idea, sarebbe stato un bel gesto, tra l’altro a buon prezzo. Il ricordo di un amico che ha regalato la sua giacca ad un povero lo coglie di sorpresa. Perché non potrei farlo anche io? Si chiede. Perché sentirò freddo, è la prima risposta che gli viene in mente, la più facile, ma anche la meno convincente. Fa freddo, questo è il punto, e lui tra venti minuti sarà in una casa riscaldata, mentre lei non avrà neanche un posto dove andare a dormire. Intanto l’autobus percorre la sua strada di sempre, come se niente fosse, ignaro d’essere scenario di una decisione importante. Quanti destini si dispiegano silenziosi sugli autobus. Ancora una volta è la memoria a venirgli in aiuto. Gli torna in mente quella pagina del vangelo sul giudizio finale: “Ero nudo e mi avete vestito” ero nudo e non mi avete vestito “. Parole inequivocabili. Eppure è libero di scegliere, come sempre. Wojtek è uno studente, sa come funzionano gli esami; raramente si conoscono in anticipo le domande che ci saranno sottoposte. Questa volta le conosce e non si tratta di un esame come gli altri. Sarà l’esame finale, il più importante, dopo il quale non ci sarà nessuna sessione per riparare. Decide di arrivarci preparato. Gli rimane solo un dubbio, di carattere formale, per così dire. Ha capito cosa deve fare, ma non sa come farlo. Non vorrebbe essere indelicato. Avvicinarsi e dirle davanti a tutti: ecco, prenda questa giacca, sarebbe quantomeno imbarazzante, per entrambi. Un bel gesto fatto in modo sbagliato perde valore, la forma non è meno importante del contenuto. Allora gli viene un’idea: aspetterà che lei scenda dall’autobus per darle la giacca. Così non se ne accorgerà nessuno. Una cosa tra loro due. Si tratta solo di aspettare qualche fermata. Il 521 avanza inesorabile. Supera gli alimentari, la stazione ferroviaria, il negozio di autoricambi, il salone della Mercedes dove Wojtek sarebbe dovuto scendere. La donna è sempre lì seduta. A questo Wojtek non ci aveva pensato, sperava che lei scendesse prima di lui. Ma non si può tirare indietro. Ormai si sta avvicinando al capolinea. Finalmente la donna si alza. L’autobus si ferma, si aprono le portiere, scendono uno dietro l’altro. Wojtek non esita un istante: “Vedo che sente freddo, se vuole posso darle la mia giacca”. La donna lo guarda, è un po’ sorpresa, non sa bene che dire. Quando la felicità bussa alla porta inaspettata si resta a volte spiazzati, si finisce per diventare perfino un po’ goffi. Forse per questo l’unica cosa che lei riesce a dire, non è neppure: grazie, ma sono cinque parole banalissime, anche se, tutto sommato, giuste. “Va bene, me la dia”. Wojtek si toglie la giacca, gliela porge, la aiuta ad indossarla. Gesti eloquenti fatti con naturalezza, senza alcuna enfasi. La donna inizia a realizzare. “Ma lei avrà un’altra giacca per sé?”. “Non si preoccupi, troverò qualcosa “, risponde Wojtek disinvolto. Dagli alberi sui marciapiedi scendono senza cadere foglie rosse, foglie gialle. Una donna cammina con le mani in tasca, il vento, preludio d’inverno, sulla faccia. Ed una giacca. Un ragazzo alla fermata aspetta l’autobus. Ci sono appena cinque gradi e lui ha solo un maglione addosso, dovrebbe sentire freddo, ma è troppo felice per rendersene conto. E questa è la storia di Wojtek, della sua giacca, di una donna che sopravvivrà all’inverno. Una storia piccola, si dirà. Sì, perché c’è la grande storia, quella che ci insegnano a scuola, storia di popoli e nazioni. E ci sono le piccole storie, di gente comune, che non troviamo sui libri (fatte rare eccezioni). Forse perché raccontano verità, in fondo, modeste. Quelle che la mattina ci fanno alzare dal letto, prendere una strada invece di un’altra, alimentare un sogno, curare una ferita, rialzare macerie pietra su pietra, e tentare ancora il laborioso edificio della vita. Niente di eclatante, piccole storie, che ci aiutano a vivere.

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