Wilde e Callas: vite di artisti
«Dove hai cominciato a perdere Dio»? chiede il vecchio prete a Oscar Wilde morente, esule in Francia, prima di battezzarlo. Lo scrittore, esausto nel corpo ma non nella mente, ricorda: una stazione ferroviaria inglese, lui legato alla guardia carceraria, le gente che prima lo osannava, ora lo derideva, gli sputava in faccia. È una immagine molto forte del film, diretto e interpretato da Rupert Everett, The happy Prince, Il Principe felice: la favola che Oscar leggeva ai suoi due bambini e che costeggia l’intero film come una storia d’amore, come quella del Cristo che Wilde ritrova nei due anni di carcere per sodomia. Qui è stato umiliato in molti modi, lui il beniamino del pubblico londinese con le sue commedie, i suoi aforismi spiritosi e graffianti.
Il film di Everett non racconta l’uomo del successo, ma l’uomo distrutto degli ultimi anni, che si illude di poter tornare alla vita dispendiosa e dissipata del passato – il soggiorno a Napoli con l’antico amico “Bosie” si rivelerà un fallimento – ed invece scopre la povertà, l’indigenza, fa amicizia con gente emarginata, dipende economicamente dagli amici ed è costretto a cambiare residenza appena lo si riconosce. Nonostante la voglia di vivere non gli manchi, il senso della fine è onnipresente dentro di lui. Il film conosce infatti una grande malinconia di fondo, è un viaggio verso la morte che Wilde affronta ora lottando per mantenersi vivo ora scoraggiandosi, ora ritrovando arguzia e intelligenza (le storie che racconta ad un ragazzino orfano), ora cercando una spiritualità che lo affascina (la scena di lui in chiesa, solo, e del vecchio prete adorante). La morte è vicina, in primo luogo quella della moglie che lo ama e che lui ha lasciato (una intensa Emily Watson). Wilde riconoscerà di aver spezzato delle vite e di aver bisogno di essere perdonato.
Girato con grande tatto, con immagini raffinate, dialoghi essenziali, il film-ritratto dell’ultimo Wilde è un dramma acuto, ricco di sfumature psicologiche nel “dire” l’anima del grande scrittore nella corsa verso la fine. Everett dà una lezione di sobrietà, di lucidità, e di rispetto (Wilde è stato riabilitato in Inghilterra solo nel 2017) in un film pervaso pure da un sottile e sotteso senso cristologico.
Mary by Callas è un atto d’amore del regista americano Tom Volf alla grande cantante lirica, scomparsa nel 1977 a 53 anni, che ha dominato le scene negli anni Cinquanta ma anche la vita modana. È questo doppio aspetto di Maria, come donna, e della Callas, come personaggio, che il lavoro documenta e analizza con passione, mediane spezzoni documentaristici in parte inediti, ed una lunga intervista alla cantante come filo conduttore. Naturalmente, intervallati da brani musicali dove emerge l’arte di una diva del belcanto unica, che ha fatto la storia. Particolarmente interessante è il rapporto tra pubblico e privato nella vita di questa donna, credente in Dio ma soprattutto, da greca, nel destino, vissuta tra uomini che l’hanno amata a modo loro – da Meneghini a Onassis -, tesa tra sogno e fallimento, semplicità e ambizione. Perdendo la musica, oggi si può dire che la Callas ha perso la parte più viva di sè stessa. Ciò getta un’ombra di tristezza nel ripercorrere la vicenda di una donna dall’immenso carisma artistico, racchiuso nella fragilità di un essere che in fondo chiedeva solo di venire amata per sè stessa e non solo per il proprio talento. Bello e commovente. Da non perdere da 16 al 18 aprile.