We the People
Sono parole che Kennedy pronuncia l’anno prima di diventare presidente degli Stati Uniti. Il confronto con l’Unione Sovietica sta marciando velocemente verso l’apice, che raggiungerà proprio sotto la sua presidenza, nei dieci giorni drammatici della crisi di Cuba, durante i quali il mondo resta col fiato sospeso in attesa di un possibile scontro diretto fra le due super-potenze. Le basi missilistiche sovietiche a Cuba rappresentano una minaccia reale, posta a ridosso dei confini statunitensi, e Kennedy reagisce, in sostanza, con un preavviso di guerra. Kruscev si ritira. Una situazione, quella vissuta da Kennedy, certamente molto diversa da quella di George Bush, il quale, con gli attentati del settembre 2001, si è trovato alle prese con una sorta di guerra già messa in atto da un nemico non facilmente identificabile, e che colpiva con mezzi del tutto diversi da quelli praticati nelle guerre convenzionali. Ma le due situazioni hanno in comune la percezione, da parte degli Stati Uniti, di un pericolo radicale, capace di metterne in discussione, nel primo caso l’esistenza, nel secondo la sicurezza. In entrambi, il nemico si oppone agli Usa in maniera globale, portando una visione della vita e un progetto politico del tutto alternativi a quelli degli Stati Uniti. Queste similitudini permettono di confrontare le diverse reazioni che i due presidenti hanno avuto e, soprattutto, le loro diverse visioni politiche. Nel dopoguerra e lungo gli anni Cinquanta, gli Usa avevano vissuto la lotta contro il “nemico interno”, che tendeva a colpire chiunque fosse sospettato di simpatie comuniste. Il clima da caccia alle streghe aveva creato una atmosfera di sospetto, con la quale veniva giustificata una sostanziale riduzione delle libertà civili. Alla fine del decennio, il confronto globale col comunismo era stato uno degli assi portanti anche della campagna elettorale di Kennedy. Ma egli pose ai suoi concittadini una domanda fondamentale intorno ai principi di libertà sui quali gli Stati Uniti erano sorti: “La questione basilare che ci sta di fronte oggi, è se questi principi fondamentali continuano a essere veri, se noi realmente crediamo in questa idea di repubblica, se oggi il popolo americano vuole ratificare la Costituzione e adottare la ‘Dichiarazione dei diritti’ – oppure se i pericoli di attacco esterno e di sovversione interna promossi da un nemico più sinistro e più potente di ogni altro che i nostri Padri Fondatori hanno conosciuto, ha così alterato il nostro mondo e le nostre convinzioni, da rendere queste verità fondamentali non applicabili più a lungo. La Costituzione, ovviamente, è ancora in vigore – ma è un contratto solenne fatto in nome di ‘Noi il Popolo’ – ed è un accordo che dev’essere rinnovato da ogni generazione” (1). Kennedy tratteggia l’immagine di un nemico, sia esterno che interno, estremamente pericoloso; ma si chiede appunto se i pericoli indotti dall’esistenza di un tale nemico siano tali da far abbandonare agli Stati Uniti quei principi che costituiscono la natura stessa del Paese. La proposta di Kennedy è di radicarsi con maggiore decisione nelle stesse convinzioni dei Padri Fondatori, non di abbandonarle, non di affidare alla pura e semplice forza il futuro del Paese. Anche Kennedy, come Bush oggi, poneva la questione in termini estremi: un paese basato sui principi di libertà degli Stati Uniti può continuare a viverli, oppure, per sopravvivere, sarà costretto ad abbandonarli? Che cosa scegliere nella alternativa fra libertà e sicurezza? La risposta di Kennedy è chiara: l’alternativa è falsa, non c’è conflitto tra i due, ma c’è sicurezza solo se c’è libertà. La libertà, però, non si impone da sola: devono esserne costruite le condizioni, sia all’interno del Paese sia nel mondo. E infatti Kennedy, in un successivo discorso a Seattle, collega la situazione statunitense con quella mondiale, spiegando che l’impegno per migliorare la situazione di casa coincide con quello per migliorare il mondo. Dà così ai propri concittadini il senso di combattere una battaglia per loro stessi, ma che va, contemporaneamente, a favore degli altri Paesi, in particolare dei più poveri (2). Anche per Kennedy allora, come per Bush oggi, “gli interessi coinci- dono con i valori”. Ma nella prospettiva kennediana c’è una apertura alla dimensione mondiale nella quale il ruolo degli Usa non è pensato solo in termini di potenza economica e militare – visione che, al contrario, sembra prevalente in Bush -, ma di aiuto: aiutando gli altri si contribuisce a risolvere anche i propri problemi. E sotto la nuova presidenza l’aiuto comincia, concretamente, non solo attraverso importanti stanziamenti di denaro, ma con una vasta partecipazione di volontari e di giovani. Né l’età di Kennedy né la sua figura vanno idealizzate in maniera acritica. Anzitutto, il vasto programma di aiuti internazionali da lui lanciato, pur producendo risultati positivi, è andato incontro ad un problema che si riaffaccia costantemente: una certa, ridotta, capacità statunitense di comprendere la diversità degli altri, l’idea di poter semplicemente esportare il proprio sistema di vita, considerando gli altri popoli come immaturi finché non lo raggiungono. Anche il suo programma politico interno è stato duramente contrastato dal Congresso; in realtà, fu Lindon Johnson a cogliere i frutti di quel che Kennedy aveva seminato. Tra il 1964 e il 1965 riuscì a far approvare una serie impressionante di leggi: da quella sui diritti civili per la quale si era battuto Martin Luther King, alla serie di provvedimenti per la “guerra totale contro la povertà”: addestramento professionale per i disoccupati, istruzione per i bambini poveri, cure mediche agli anziani e ai poveri, aiuti federali agli studenti, rimozione degli ostacoli frapposti al voto dei neri negli Stati del Sud, eliminazione delle discriminazioni degli immigranti in base al Paese di origine. La vicenda di Kennedy aiuta a capire la complessità della società statunitense, la fatica e la lotta continua che i principi costituzionali richiedono per giungere ad una realizzazione sempre più completa; e i fatti dimostrano non solo gli insuccessi e gli errori, ma anche che gli Usa hanno le risorse morali per combattere questa battaglia e per vincerla. E aiuta a capire che non bisogna mai identificare questo Paese con le scelte particolari del suo presidente. Gli Stati Uniti non erano solo ciò che Kennedy esprimeva; non sono, oggi, solo quello che Bush rappresenta. Pur tenendo conto dei limiti segnalati, Kennedy ha operato un confronto genuino con i principi sui quali il suo paese si è fondato, si è interrogato sinceramente sull’identità degli Stati Uniti. Non è forse proprio questo ciò che anche oggi dovrebbero fare in primo luogo gli statunitensi, ma anche, insieme a loro, tutti noi? Gli Stati Uniti, infatti, si sono costruiti col contributo di tanti popoli: l’american experiment, che appartiene certamente, in primo luogo, ai cittadini statunitensi, appartiene anche a tutti gli altri popoli, per quello che agli Stati Uniti hanno dato, e per quello che hanno ricevuto. Che gli Stati Uniti siano sempre più pienamente se stessi, è un interesse generale dell’umanità. Ne aveva piena coscienza già Thomas Paine, in quel suo libello, Common sense, che precedette di poco la Dichiarazione di indipendenza: “La causa dell’America è, in grande misura, la causa di tutta l’umanità. Molte circostanze sono sorte e sorgeranno di carattere non locale ma universale, e attraverso le quali sono toccati i principi di tutti coloro che amano l’umanità e nei confronti delle quali i loro sentimenti sono coinvolti”. Assimilare la causa degli Stati Uniti con quella dell’umanità contiene certamente una verità, ma anche un pericolo: quello di ritenere gli Stati Uniti la parte migliore dell’umanità, che si sentano autorizzati, per questo, a decidere, da soli, per tutti. E’ un pericolo non episodico, ma strutturale, nel quale, infatti, gli Usa cadono ricorrentemente e dandone, sempre, una giustificazione ideologica. Eppure, proprio la lettura dei documenti fondativi degli Stati Uniti, il confronto con l’intuizione originaria che il popolo statunitense ha avuto di se stesso, può fornire una diversa chiave di lettura anche per i suoi compiti di oggi. La Dichiarazione di indipendenza del 4 luglio 1776 è uno dei capisaldi politici nella storia dell’umanità. L’apertura, che scorre così semplice lettura, e risuona interiormente pulita ed esatta, è in realtà di una complessità e di una ricchezza avvincenti. A prendere la parola è un popolo, che ha deciso di sciogliere i legami politici che lo avevano legato ad altro. Si parla di “popoli” e non “stati”, sottolineando così la superiorità del popolo (il soggetto) sullo stato (lo strumento), il suo diritto cambiare l’istituzione politica sotto la quale è costretto. Lo stato viene così tolto da ogni forma di identificazione con una persona: non è lo stato- famiglia del monarca europeo, non lo stato-proprietà privata del despota: è solo uno strumento del quale un popolo si serve per il proprio bene. Nella Dichiarazione, un popolo in sé l’autorità per riconoscersi se lo vuole. E’ la volontà di essere popolo, che fa un popolo. Ma questa volontà è duplice: quella degli uomini che lo compongono, e quella di Dio, il Quale, all’interno degli eventi storici, ha mosso le cose in modo tale da costituire questa nuova entità. Alle origini dell’american experiment sta questa unificazione delle due volontà, che rimarrà una idea caratteristica della storia successiva degli Stati Uniti. Ma il nuovo popolo riconosce però altre autorità con le quali si deve confrontare. Esso infatti deve prendere il proprio posto “distinto ed eguale”, “tra le altre potenze della terra”. Il suo diritto ad occuparlo si fonda sulla “Legge naturale e divina”, data a tutta l’umanità. Per questo il nuovo popolo sente il dovere di spiegare le proprie ragioni non solo a se stesso, ma per “giusto rispetto delle opinioni dell’umanità”. La Dichiarazione conferisce all’umanità un peso enorme: invocandola come testimone del proprio diritto, la accetta anche come giudice dei propri doveri: le decisioni che il popolo prende, devono essere condivise da quell’umanità che egli stesso chiama in causa per giudicare le proprie buone ragioni. È l’umanità che deve condividere col nuovo popolo le decisioni, in base a quella “Legge naturale e divina” che, essendo universale, ha come soggetto adeguato solo l’umanità. La cultura illuminista, alla quale la Dichiarazione in certa misura appartiene, faceva largo uso dell’idea di umanità: un’idea che spesso appariva astratta, e che era possibile piegare – come gli illuministi hanno fatto – ai più diversi usi. Ma nel contesto della Dichiarazione essa è portatrice di un significato enorme, che certamente, nel 1776, non appariva in tutte le sue implicazioni. Non sarà questo l’elemento nuovo di oggi, quello di cui tenere conto nel momento in cui ci si interroga nuovamente sulla vocazione del popolo statunitense? L’idea, cioè, di una umanità concreta, incontrata, conosciuta nelle sue diversità, che rivendica oggi il proprio diritto di porre sull’altro piatto della bilancia, accanto alla volontà particolare di un popolo, le esigenze di tutti gli altri. Gli Stati Uniti hanno una autentica vocazione alla libertà; e da liberatori hanno effettivamente agito, in occasioni diverse e determinanti per la vita di interi popoli. In altri casi hanno fatto esattamente l’opposto. Il mondo ha bisogno degli Stati Uniti. Ma avere una vocazione significa essere chiamati a qualcosa che si realizza in mezzo agli altri, e che si comprende, un po’ alla volta, insieme a loro. La vocazione di ciascuno può dirsi realizzata solo quando tutti gli altri ne hanno ricevuto i benefici, facendola propria. Allora si realizzerà realmente ciò che Thomas Jefferson, presidente degli Stati Uniti e autore della Dichiarazione di indipendenza, confidava, nel 1823, in una lettera a Monroe: dopo avere criticato i regimi europei, considerati “nazioni in eterna guerra”, egli scriveva: “Per parte nostra, non c’è mai stato un popolo con una opportunità così favorevole di provare il sistema opposto, di pace e fraternità con l’umanità, e la direzione di tutte le nostre menti e capacità è verso il proposito di rafforzarlo, nonostante ogni distruzione”. Antonio Maria Baggio 1) J. F. Kennedy, Civil liberties and our need for new ideas, Washington D. C., 16 aprile 1959; 2) J. F. Kennedy, Seven peaceful Revolutions of our time, Seattle, 20 giugno 1959.