Warhol come Nostradamus
Warhol, ed è subito glamour. Al Palazzo ducale di Genova, la grande mostra rende omaggio all’artista e alla pop society. Ritroviamo il mondo patinato degli anni ’60, l’ottimismo smagliante del boom economico, i colori sintetici delle prime reclame, le icone di Hollywood e quelle del supermercato.
Il repertorio visivo del guru della pop art sembra arrivare inossidabile fino ai giorni nostri. Ogni soggetto, per il solo fatto di essere comparso nelle sue stampe, è diventato un’icona. Eppure, a ben guardare, l’eredità di Andy Warhol, sembra andare molto al di là di ciò che la mostra celebra, della semplice memoria degli anni ’60 o delle opere che ci ha lasciato. La sua filosofia si proietta in maniera sottile e inquietante fin dentro la nostra quotidianità. E le visioni di quel personaggio così eccentrico e chiacchierato, si rivelano profezie che si realizzano a più di mezzo secolo di distanza.
«Tutti, almeno una volta nella vita, dovrebbero avere un minuto di celebrità». Frase bizzarra, all’epoca. Oggi, invece, basta una comparsa in tv per essere subito nelle case dei telespettatori; un personaggio qualsiasi, in un reality qualsiasi, ha popolarità immediata anche con pochi minuti… poco importa se fugace.
Con fare istrionico e quasi psicotico, Warhol teneva accesi tre televisori contemporaneamente, sintonizzati su diversi canali. Non si anticipa con ciò, il bisogno odierno di restare sempre connessi? Non solo alla propria sfera di relazioni affettive e lavorative, ma all’universo mondo.
L’artista assoldava dei sosia che presenziassero in diversi locali ed eventi nello stesso momento perché… bisogna esserci. Che follia! Ma non è forse questo un anticipo del presenzialismo che i moderni social-network mettono in atto? Se non sei connesso ovunque sei Out; se non sei social, non ci sei… E sei davvero social, se sei su tutti i social-network, mica su uno solo. Così siamo su Facebook, Twitter, Instagram… Oggi non è solo possibile, è quasi doveroso.
Come un Nostradamus dell’arte, Warhol ha profetizzato tutto ciò. Smontando e ostentando i meccanismi della comunicazione di massa, l’artista muove una critica sottile alla società dei consumi, pur sposandone il sistema.
I protagonisti dei suoi quadri sono, infatti, gli oggetti che tutti vedono, comprano, consumano: Coca Cola, Pepsi, Brillo, Kellogg’s, Campbell’s. Ma anche i volti delle star di Hollywood, in qualità di merce di consumo, si conquistano un posto d’onore nel repertorio d’immagini dell’artista, volti così famigliari che nel titolo compare solo il nome: Marilyn, Liz, Jacqueline, Marlon, Elvis, ecc.
L’immagine viene moltiplicata, proprio com’è tipico della stampa sui rotocalchi, delle pubblicità in tv o delle notizie alla radio. Ecco, quindi, che il volto di Marilyn si ripete in modo seriale, l’uno di fianco all’altro, e si offre palesemente al consumo della massa in qualità di merce, oggetto, disponendosi in file monotone, uguali e sovrapposte, proprio come succede alle scintillanti lattine alimentari disposte sugli scaffali del supermarket.
L’opera si dichiara apertamente come una riproduzione, una mercificazione, soggetta a difetti ed effetti degradati. Ripetizione seriale, tinte piatte e artificiali; come accade alle sfasature di registro tipico della tiratura a stampa di bassa qualità, le campiture di colore escono spesso dai margini che le dovrebbero contenere. Nel ripetersi della stampa, poi, l’inchiostro si fa sempre più scarico, quasi l’immagine sia il frutto difettoso di un meccanismo rotto che sacrifica la qualità in favore della quantità.
L’accento è così spostato dal soggetto Marilyn alla stessa tecnica che, riproducendone il volto in serie, lo mostra come l’icona più sfruttata, stereotipata, e degradata che ne possiamo avere.
I difetti del sistema sono ostentati e messi sul piedistallo. L’attualità di questa critica priva di moralismi è quasi inquietante. Oggi più di ieri, si fa urgente la consapevolezza dello sguardo; volente o no, lo spettatore è anche consumatore… meglio se cosciente.