Vujadin e Tito, maestri di calcio e umanità
È forse diventato più celebre per i suoi numerosi aforismi che per i (tanti) titoli vinti. Gli facesse piacere o meno, non lo sappiamo, ma un fatto è certo: in un caso o nell’altro, ci avrebbe riso su. Perché Vujadin Boškov era così: allegro, sorridente, ironico. Ma anche pungente, schietto, mai banale. «Una sagoma», come l’ha definito Gianluca Pagliuca, apprezzato da tutti, nel mondo del calcio. In primis dai tifosi della Sampdoria, che portò a uno storico (e finora unico) trionfo nel campionato italiano. Ma anche dagli avversari, consapevoli di trovarsi di fronte a una persona speciale, ancor prima che a un ottimo allenatore.
Il tecnico serbo si è spento ieri sera a Begeč, il paesino sulle rive del Danubio che lo aveva visto nascere quasi 83 anni fa. Un uomo che ha sempre respirato calcio, un giramondo del pallone soprattutto quando – appesi gli scarpini al chiodo – intraprese la carriera di allenatore. A Genova ha lasciato i ricordi più belli, guidando il club doriano allo scudetto del ’91, alla Coppa delle Coppe ’90, a due edizioni della Coppa Italia e a una della Supercoppa italiana. Fu respinto, invece, dal massimo trofeo continentale, perso ai supplementari della drammatica finale ’92 col Barcellona undici anni dopo la sconfitta, sempre all’ultimo atto, subita dal suo Real Madrid al cospetto del Liverpool. In Spagna seppe comunque conquistare un campionato e due edizioni della Coppa del Re, seconda competizione nazionale messa in bacheca pure in Olanda, sulla panchina del Den Haag. E poi ancora, esperienze in Svizzera e nella sua (ex) Jugoslavia – anche in Nazionale –, ma è senza dubbio in Italia che diede il meglio di sé. Francesco Totti, che Boskov fece esordire in Serie A nel marzo del ’93, gli ha dedicato un commosso messaggio sul proprio sito ufficiale, ricordandolo come «grande uomo, competente, vincente e dotato di un umorismo acuto e intelligente».
Già, il suo umorismo. Che accompagnava a un profondo senso pratico e a un italiano un po’ balbettante ma quasi sempre comprensibile. Famosissima la frase: «Rigore è quando arbitro fischia», così come il suo «pallone entra quando Dio vuole». E poi, riferito a Ruud Gullit in arrivo a Genova, «è come cervo che esce di foresta», o a Benito Carbone, che «con le sue finte disorienta avversari ma pure compagni».
La morte di Boskov è arrivata due giorni dopo quella di un altro grande tecnico, cresciuto nell’ombra di Pep Guardiola, del quale ha condiviso filosofia e impostazione di gioco. Il tiqui-taca blaugrana che ha rivoluzionato il calcio moderno, infatti, è opera anche di Tito Vilanova, scomparso a soli 45 anni fa per quel tumore alla ghiandola parotide che meno di un anno fa lo aveva costretto ad abbandonare la panchina del Barcellona dopo aver conquistato – da capo allenatore – uno storico scudetto a quota 100 punti. Ieri sera Sergio Busquets, una delle colonne del club catalano, non ha saputo trattenere le lacrime al termine del minuto di raccoglimento osservato in onore del suo ex tecnico al “Madrigal” di Vila-real, poco prima del fischio d’inizio di Villarreal-Barça. E sono state migliaia le persone che hanno dato l’ultimo saluto a Tito nella camera ardente allestita all’interno del “Camp Nou”. Una silenziosa processione per ricordare un uomo silenzioso, mai sopra le righe, totalmente dedito a una grande passione diventata un lavoro.
Vujadin e Tito, così diversi ma anche così uguali. Protagonisti di un calcio sempre sotto i riflettori, ma che sa ancora conservare la propria umanità.