Voucher lavoro. Cerchiamo di capire

Abolire i voucher non risolve il problema della carenza di occupazione. Limitiamo gli abusi e concentriamoci sul compito necessario di un lavoro stabile come un vero investimento di lungo termine. Per stare al livello della vicina Francia, ad esempio, bisognerebbe creare almeno 3 milioni di posti di lavoro
ANSA / LUIGI MISTRULLI

Molti sono, purtroppo, i problemi del nostro mercato del lavoro. In questi giorni l’attenzione è concentrata sui voucher (pronuncia vaucer, in italiano buoni-lavoro), simbolo massimo della precarietà occupazionale, soprattutto dei giovani.

Un datore di lavoro (non solo un capo azienda, ma anche una famiglia) che ha bisogno di una prestazione lavorativa occasionale può regolarizzare la cosa in modo molto semplice  acquistano questi buoni via internet o dal tabaccaio a 10 euro l’uno: 2 euro e mezzo andranno direttamente in contributi sociali, mentre al lavoratore resterà una retribuzione di 7 euro e mezzo.

I voucher non sono una novità per il nostro Paese, dato che sono in vigore dal 2003, con le varie modifiche via via introdotte. Quello che ha allarmato l’opinione pubblica è che il numero  dei voucher riscossi è esploso dai 15 milioni del 2011 ai quasi 88 milioni del 2015, e anche nel 2016 la tendenza è decisamente crescente. Pare infatti che i voucher offrano un comodo espediente ai furbi per non dover assumere il personale alle proprie dipendenze anche quando di fatto lavora in modo continuativo; e ad altri ancora più furbi – fa notare qualcuno – un modo per esser pronti in caso di controlli a regolarizzare una prestazione che altrimenti sarà svolta totalmente in nero.

Tale possibilità di abuso è stata contrastata dal decreto governativo 185 dello scorso settembre che impone, tra le altre cose, una comunicazione via email all’Inps almeno un’ora prima dell’inizio della prestazione lavorativa.

Sul tema voucher la discussione è di nuovo aperta. Il governo sembra intenzionato a mantenerli in vita, ma limitandone l’ambito di applicazione. Alcune voci autorevoli, tra cui quelle del segretario Cgil Susanna Camusso, del  leader della Fiom Maurizio Landini e dell’ex ministro della solidarietà sociale, Paolo Ferrero, ne hanno invece chiesto l’abolizione pura e semplice. D’altronde, ciò è quanto chiede uno dei referendum promossi proprio dalla Cgil, sui quali dovrà pronunciarsi in questi giorni la Corte Costituzionale.

Certamente dietro questa posizione c’è il desiderio che a tutti, a cominciare dai giovani vengano offerte le migliori opportunità lavorative, ma siamo sicuri che mettere fuori legge i voucher sia la strada giusta?

Prima di tutto, diamo uno sguardo ai numeri.

Abbiamo idea di quanto pesi questa forma di pagamento nel totale dei redditi da lavoro dipendente? Ho provato a chiederlo a chi mi capitava a tiro (non parlo di esperti) e la risposta più cauta che ho ricevuto è stata 5%.

La risposta esatta invece (dati INPS, 2015) è 0,23%. Ciò fa subito capire che non sta qui la principale spiegazione delle difficoltà che incontrano i nostri giovani ad ottenere un lavoro stabile.

Questa non è comunque una buona ragione per disinteressarsene, anche perché sono stati quasi un milione e mezzo (l’8,8% del totale) i lavoratori che nel 2015 sono stati pagati con voucher, ricevendone in media 63 nel corso dell’anno.

E ora una parola sulle caratteristiche di questi rapporti lavorativi. Una fonte utilissima è una recente approfondita indagine svolta per conto dell’INPS e disponibile nel sito dell’Istituto (*), che documenta la grande varietà di tipologie e di durata nell’utilizzo dei voucher, nonché di traiettorie professionali dei lavoratori coinvolti. Un’analisi attenta della questione non consente eccessivi entusiasmi, ma neanche facili condanne. Ad esempio, il caso di contratti a tempo indeterminato risolti con licenziamento e poi sostituiti dal ricorso ai voucher è molto raro. Come pure raro è che il numero di voucher per lavoratore si avvicini al tetto massimo consentito (cosa che farebbe sospettare un loro utilizzo anche che per prestazioni intense e continuative).

Chiediamoci ora cosa possiamo sperare di ottenere abolendo i voucher. Supponiamo pure che ogni voucher corrisponda alla retribuzione di un’ora (anche se esistono casi in cui il lavoratore riceve 2 o più voucher per ora). Immaginiamo ora di poter magicamente: riunire tutte quelle ore-voucher prima di tutto tra chi ha lavorato per lo stesso datore di lavoro (in base ai dati 2015 si tratta in media di 3,7 lavoratori per datore, per un totale, sempre in media, di 186 ore annue); poi raggruppare più datori di lavoro in modo da arrivare ad un totale annuo di 1500 ore, quante ne richiede, come minimo, un posto di lavoro a tempo pieno (i dati ci dicono che in media a tal fine occorrerebbe mettere insieme un po’ più di otto datori di lavoro); infine prendere uno dei circa 24 lavoratori complessivamente coinvolti da quei datori di lavoro e farlo lavorare a tempo pieno, facendogli svolgere anche i compiti degli altri 23 (e lasciando necessariamente questi ultimi a casa in attesa di tempi migliori). A questo punto avremmo trasformato quelle decine di milioni di ore-voucher in poco più di 50.000 posti di lavoro a tempo pieno. Naturalmente, se ci accontentassimo di ottenere delle posizioni lavorative della durata solo di tre mesi a tempo pieno, o di sei a metà tempo, il numero di contratti di lavoro che si potrebbero teoricamente ottenere sale a 200.000 (nel qual caso se ne lascerebbero a casa solo 20).

Il primo problema è che nessuno ha la bacchetta magica necessaria a fare questo compattamento di ore lavorate in luoghi diversi, presso committenti diversi, con cadenze temporali diverse, con compiti che vanno dalla raccolta di frutta, alle pulizie negli alberghi, al baby-sitting o al facchinaggio. Nella realtà, allora, quante di quelle ore di lavoro “in chiaro” verrebbero ancora attivate dai rispettivi datori di lavoro se fosse cancellata l’opzione voucher?

Certamente alcuni datori di lavoro, quelli che usano più massicciamente questo strumento, potrebbero fare loro stessi questo compattamento, ma si tratta di una minoranza. Certamente il ricorso al lavoro interinale (intermediato da apposite agenzie) potrebbe in parte riconciliare la grande frammentazione dei compiti svolti attraverso i voucher con una certa continuità del contratto di lavoro di chi li esegue.

Altre ore potrebbero essere recuperate grazie al fatto che alcuni datori di lavoro saltuari potrebbero, invece che prendere qualcuno direttamente alle loro dipendenze per svolgere certi compiti, acquistare quei servizi presso altre imprese, che farebbero lavorare qualche loro dipendente.

Ancora, altre ore di lavoro potrebbero essere attivate da imprese concorrenti nel momento in cui venissero meno i voucher. In assenza di informazioni più precise qualsiasi numero sarebbe azzardato, ma temo fortemente che le ore di lavoro in regola che verrebbero create in sostituzione delle ore-voucher vietate sarebbero una frazione di quelle ben minore dell’unità. Mentre sarebbero tutt’altro che trascurabili le due frazioni restanti: quella delle ore di lavoro che svanirebbero nel nulla (“se è così complicato far svolgere quei compiti a qualcuno, piuttosto lascio stare”) e quella delle ore che tornerebbero al “nero” (merita qui ricordare la candida affermazione del segretario di una struttura bolognese della Cgil venuta alla ribalta della cronaca per il fatto di utilizzare anch’essa i voucher, secondo cui l’unica alternativa sarebbe far lavorare i loro collaboratori in nero).

Supponiamo pure, con un po’ di ottimismo, che sacrificando i voucher si riescano a recuperare posti di lavoro regolari equivalenti a 30.000 annate ad orario pieno. Potremmo allora dichiararci abbastanza soddisfatti? O dovremmo invece dispiacerci di aver perso una buona fetta (forse il 40%?) di quella domanda di prestazioni lavorative che si esprimeva attraverso i voucher? Per provare a dare una risposta andiamo a confrontare la nostra situazione occupazionale, non dico con quella dell’irraggiungibile Germania, ma almeno con quella della Francia, che rappresenta un termine di confronto più vicino a noi. Nella fascia d’età 15-64 ad avere un posto di lavoro è il 69,5% dei francesi, ma solamente il 60,5% degli italiani.

Per colmare questa differenza occorrerebbe creare tra i 3 e i 4 milioni di posti di lavoro, riassorbendo così una buona parte degli oltre 6 milioni di senza lavoro (ricordiamo che agli oltre 3 milioni di disoccupati dichiarati vanno aggiunti altrettanti cittadini italiani che se un lavoro per loro ci fosse lo prenderebbero).

Tre milioni di posti di lavoro rappresentano un compito immane! Certo, nessuno può pretendere di risolverlo attraverso l’una o l’altra regolamentazione della questione voucher. Ma proprio l’enormità di questo gigantesco, persistente squilibrio tra domanda e offerta di prestazioni lavorative ci dice che non si riuscirà mai a venirne a capo a forza di divieti.

Al contrario, si potrà sperare che i milioni di posti di lavoro che mancano possano essere creati solo se decine o centinaia di migliaia di datori di lavoro troveranno conveniente assumere nuovi lavoratori, e a questo fine la disponibilità di forme contrattuali flessibili è a mio avviso una condizione necessaria. Altrettanto necessario è però, al tempo stesso, creare le condizioni perché i datori di lavoro scelgano più spesso possibile le forme contrattuali più stabili, quelle che permettono di vedere nel rapporto di lavoro un investimento di lungo termine, nel senso che dopo un po’ quel lavoratore, avendo acquisito le specifiche competenze richieste dall’operatività di quella azienda, può diventarne un punto di forza, assolutamente non confrontabile in termini di produttività con un lavoratore precario tenuto il meno possibile per il timore di  dovergli dare maggiori diritti.

Una tale prospettiva costituisce una sfida colossale per l’intero Paese: per il nostro sistema contributivo e fiscale (spesso oltremodo penalizzante), per la nostra burocrazia (spesso ancora lenta e farraginosa); per la gestione della spesa pubblica (appesantita da privilegi e sprechi), per il sistema scolastico e formativo (ancora agli ultimi posti nell’Unione Europea, nonostante gli sforzi di miglioramento); per la cultura imprenditoriale e manageriale prevalente (spesso orientata ad un opportunismo di breve respiro); per il mondo delle professioni (che non di rado impone costi ingiustificati a chi intraprende); per le banche (troppo spesso inclini ad elargire agli amici, piuttosto che a finanziare progetti validi). Sfida colossale, ma prospettiva necessaria.

 

(*) Bruno Anastasia, Saverio Bombelli, Stefania Maschio. Il Lavoro accessorio dal 2008 al 2015. Profili dei lavoratori e dei committenti. WorkINPS Papers.

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