Il voto per riprenderci una sovranità perduta
«La libertà è partecipazione», cantava Giorgio Gaber in una canzone composta 50 anni fa (!), ma anche la democrazia è partecipazione, anzi si nutre di essa e può quindi morire d’inedia se non la alimentiamo. La democrazia stenta a trovare nutrimento: è un fatto accertato dal momento che metà degli elettori non va a votare.
E temo che il prossimo 25 settembre non vi sarà una significativa inversione di tendenza. È un’erosione che viene da lontano, da quando con la cosiddetta “seconda repubblica” si pose fine alle leggi proporzionali “pure” ed in nome della democrazia “decidente” si pensò a sistemi premiali maggioritari in nome della “governabilità”.
Iniziava così la progressiva espropriazione del peso elettorale del voto dei cittadini ed il conseguente restringimento della rappresentanza territoriale degli eletti. Agli inizi degli anni ‘80, una decina di anni prima dei nostri infausti anni ’90, la “Reaganomics”, cioè la liberalizzazione dei mercati e la finanziarizzazione dell’economia ad essa collegata, cominciò ad espropriare la politica del suo potere decisionale (altro che democrazia “decidente”) sottoponendola al ricatto del debito pubblico, orchestrato con la vasta e sofisticata strumentazione dell’imperialismo finanziario in espansione.
Alla fine degli anni ’80, il fallimento “comunista” fece dire a qualcuno che la storia finiva lì con la completa vittoria del capitalismo, senza alternative possibili. Rassegnarsi o fallire. Ciò che seguì si è dispiegato nei successivi quarant’anni in direzione del restringimento dei diritti e dei salari, precarietà, diseguaglianze, fiscalità piatta a favore degli abbienti e via via su una strada che cominciò a far deragliare la politica rispetto alla Costituzione repubblicana, uscita dall’immane secondo conflitto europeo-mondiale.
Proprio all’inizio della nostra Carta costituzionale si legge che la “sovranità appartiene al popolo”. Ma non è più così da un po’ di tempo. La sovranità è migrata altrove ed abita in luoghi diventati inaccessibili ai cittadini.
Restano ai partiti facoltà decisionali residue, qualcosa sui diritti civili, qualcosa sulla manutenzione ordinaria delle infrastrutture, qualcosa sulla contrattazione aziendale, ma senza velleità di includere “diritti acquisiti” e simili. Ma soprattutto le rimase il compito di formalizzare la “privatizzazione” di tutto ciò che può generare profitto a favore del “proprietario” di turno: sanità, energia, trasporti, strade, scuole, materie prime vitali come l’acqua, che il 90% degli italiani voleva pubblica, ma così non è.
La stessa politica “estera” resta la cenerentola di ogni programma, risolta nel binomio “europeismo-atlantismo”, che è un ossimoro in quanto l’uno è negazione dell’altro termine: gli Stati Uniti d’America temono gli Stati Uniti d’Europa e ne alimentano le divisioni.
Se stai dentro un impero, sei un vassallo e vai dove altri ti conducono. Al più la delegherai ad un ente in cerca di risorse energetiche, ma senza esagerare in autonomia: la fine di Mattei docet.
E dunque: “a che cosa partecipo?”, si domanda il cittadino espropriato, rivolgendosi allo stesso ceto politico, a sua volta espropriato e progressivamente omologato ad una sorta di pensiero unico.
Quindi non è che non si voglia nutrire la democrazia, è il cibo ad essere scomparso, è il potere decisionale che è migrato altrove, è la sovranità popolare che è diventata un nome senza corrispondenza reale. Da dove ricominciare dunque per una lunga marcia di riscatto e riappropriazione realmente democratica?
Dal “demos” si potrebbe dire, ma da quale popolo? Da quello che risulta dalla somma di tanti individualismi, sedotti e manipolati dal consumismo imperante?
Dovremmo fare un nuovo “contratto sociale”, ma somiglierebbe ad un compromesso scaturito da una sorta di assemblea di condominio, litigiosa ed accaparratrice. La domanda di Kennedy: “chiediti cosa puoi fare tu per il tuo Paese”, temo che oggi sarebbe incompresa ed irrisa. Chi avrebbe più bisogno di un sano e vero riformismo, le componenti sociali deprivate ed impoverite, sono invece astensioniste, disilluse e sfiduciate.
Fin qui la pars destruens, e adesso che fare?
Vanno ricostruite le ragioni valoriali e sociali dello stare insieme in un bene comune da governare e condividere.
Certamente andare a votare, perlomeno coloro con i quali abbiamo interloquito in questi anni su temi come pace, disarmo, diritti umani violati, diseguaglianze crescenti. Pochi in verità: qualche titubante esponente del PD, alcuni fuoriusciti dai 5 stelle, altri di Sinistra Italiana o formazioni simili. Nella legislatura che si è chiusa non fu neppure ricostituito un gruppo parlamentare per la pace. Chi ne faceva parte nella precedente, non è stato ricandidato o non è stato eletto.
Sceglieremo coloro che condividono con noi i valori di verità, giustizia e pace. Sono minoritari, ma non sono insignificanti. L’idea del “voto utile” non mi convince, preferisco il voto coerente. Ce n’è gran bisogno.
Quanto al dopo-voto, da dove ricominciare? Come continuare il nostro impegno democratico? Restano i discorsi magistrali di papa Francesco rivolti ai Movimenti popolari ad indicare la direzione:
«Così mi piace chiamarvi, “poeti sociali”. Perché voi siete poeti sociali, in quanto avete la capacità e il coraggio di creare speranza laddove appaiono solo scarto ed esclusione. Poesia vuol dire creatività, e voi create speranza. Con le vostre mani sapete forgiare la dignità di ciascuno, quella delle famiglie e quella dell’intera società con la terra, la casa e il lavoro, la cura e la comunità. Grazie perché la vostra dedizione è parola autorevole, capace di smentire i rinvii silenziosi e tante volte “educati” a cui siete stati sottoposti, o a cui sono sottoposti tanti nostri fratelli. Ma pensando a voi credo che la vostra dedizione sia principalmente un annuncio di speranza… Quanto è importante che la vostra voce sia ascoltata, rappresentata in tutti i luoghi in cui si prendono decisioni! Offrirla come collaborazione, offrirla come una certezza morale di ciò che si deve fare. Sforzatevi di far sentire la vostra voce, anche in quei luoghi, e per favore, non lasciatevi incasellare e non lasciatevi corrompere». (IV incontro Movimenti Popolari – 16 ottobre 2021)
“In piedi costruttori di pace” ci chiese il Venerabile don Tonino Bello, indimenticato presidente di Pax Christi. In piedi ed in cammino per alimentare la Speranza che “ha due bellissimi figli: lo sdegno e il coraggio. Lo sdegno per la realtà delle cose e il coraggio per cambiarle”, come scrisse sant’Agostino.
Con la preghiera, con lo studio, con l’azione che è anzitutto testimonianza personale e di gruppo, scomoda, impegnativa, controcorrente, ma imprescindibile. Alla fine la democrazia vincerà, ma avrà un prezzo da pagare: impegniamoci oggi perché non ricada tutto sulle generazioni più giovani.
Vadano a loro le nostre cure quotidiane: pensiamo, proponiamo, lavoriamo con loro e per loro per ridare alla politica un occhio puro, essa è “l’amore degli amori” (Chiara Lubich), così che essa venga vissuta e praticata come “la forma più alta di carità”.
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Contributo al dibattito verso le elezioni politiche del 25 settembre promosso da Città Nuova con questo articolo di invito pubblicato il giorno 8 agosto 2022.Vedi i diversi contributi del Focus
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