Votare o non votare? Questo è il problema

Storia di un diritto che ha cambiato il mondo. Un diritto… ma anche un dovere

Il 25 settembre andremo a votare e potremo esprimere un diritto straordinario che è stato conquistato dai cittadini: scegliere i propri rappresentanti per esercitare la sovranità che, come stabilisce la Costituzione Italiana all’art. 1, appartiene al popolo.

Perché abbiamo definito una conquista questa facoltà che ci viene attribuita? La risposta è semplice: in Italia i cittadini possono determinare la selezione dei parlamentari solo da 161 anni e cioè dal 1861, dalla prima legislatura del Regno d’Italia. Ma non tutti i cittadini ebbero da subito questa possibilità.

Nel 1861, praticamente, poterono votare soltanto i maschi che avevano compiuto il 25° anno di età. Questa facoltà che già escludeva le donne, non era data a tutti i maschi. Bisognava anche pagare un’adeguata cifra di tasse annuali per essere accreditati al voto, occorreva essere benestanti e anche istruiti (gli analfabeti in Italia nel 1861 erano il 74,7%). Tenuto conto di queste limitazioni su circa 22 milioni di abitanti ebbero diritto al voto poco più di 400.000 persone (1,8% dei cittadini) e i votanti effettivi furono ancora di meno 239.583.

Nel 1881 il limite di età fu abbassato a ventuno anni e poterono votare anche i maschi della media borghesia. In questo modo la platea degli elettori si allargò superando le 600.000 persone. In queste elezioni votarono effettivamente 358.250 cittadini.

Bisogna arrivare al 1912 affinché il Parlamento estendesse il diritto di voto a tutti i maschi sopra i ventuno anni di qualsiasi condizione sociale purché avessero superato con buon esito l’esame di scuola elementare.

Il cosiddetto suffragio universale maschile arrivò invece nel 1918 e si poté esercitare nelle elezioni politiche dell’anno seguente. Gli aventi diritto al voto divennero più di 10 milioni di cittadini maschi e votarono 5.793.507 persone.

E le donne?

Affinché le donne potessero esprimere lo stesso diritto alle elezioni politiche occorrerà attendere la fine della seconda guerra mondiale. Per la prima volta si espressero nel 1946 per scegliere la forma di stato, monarchia o repubblica. Nella Costituzione repubblicana il diritto di voto per le cittadine venne introdotto in modo definitivo: «Sono elettori tutti i cittadini, uomini e donne, che hanno raggiunto la maggiore età» (art. 48 Costituzione).

Esercitarono il diritto più ventisei milioni di cittadini e cittadine (il 92,19% degli iscritti alle liste elettorali). Finalmente possiamo affermare che il Popolo italiano nella sua interezza espresse per la prima volta la sua sovranità politica, i numeri che abbiamo citato fin qui ne danno testimonianza.

Ripercorsa sinteticamente, il diritto di voto è una conquista recente. In Svizzera per le donne è stato introdotto solo nel 1971. Prima dell’inizio del Novecento l’unico Paese dove potevano votare tutti i cittadini indipendentemente dal sesso era la Nuova Zelanda dal 1893. In Arabia Saudita le donne hanno potuto esercitare il diritto di voto a partire da 2015.

Ma il poter votare è solo un diritto? Secondo la nostra Costituzione no: «Il voto è personale ed eguale, libero e segreto. Il suo esercizio è dovere civico» (art. 48). Era stata così perigliosa la conquista di questo strumento da parte dei cittadini che il renitente veniva stigmatizzato: «L’elettore, che non abbia esercitato il diritto di voto, deve darne giustificazione al Sindaco del Comune nelle cui liste elettorali è iscritto […] Per il periodo di cinque anni la menzione “non ha votato” è iscritta nei certificati di buona condotta che vengano rilasciati a chi si è astenuto dal voto senza giustificato motivo» (D.P.R. 30 marzo 1957, n. 361 art. 115).

Questa norma è stata abrogata nel 1993, ma rimane il presupposto culturale che con il voto si contribuisce a formare la spina dorsale del potere legislativo che poi determina molti fattori della convivenza civile. Il senso di responsabilità ci spingerebbe a concludere che il voto è certamente anche un dovere oltre che un diritto. Ma ci sono altri fattori di cui tener conto.

Il degrado della classe politica ha generato un disinteresse per l’esercizio di questa prerogativa democratica: “tanto sono tutti ladri”. Con frasi come questa molti cittadini rendono visibili le ragioni della loro astensione. In effetti, centinaia di parlamentari negli ultimi decenni sono stati indagati altri condannati dai tribunali in modo definitivo perché hanno commesso reati gravi.

Moltissimi politici vengono eletti in un partito e poi cambiano collocazione parlamentare andando fra le fila di gruppi che sostengono posizioni molto divergenti da quelle pronunciate dall’onorevole in campagna elettorale e che motivavano i voti ricevuti.

Questi cambi hanno poco a che vedere con l’assenza di vincolo di mandato garantita dalla Costituzione: «Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato.» (art. 67 Costituzione) Lo spirito di questa norma era di lasciare libera la coscienza del senatore o del deputato, anche votando contro le indicazioni del suo partito di appartenenza se le riteneva sbagliate. Nulla a che fare con i cambi di casacca a cui assistiamo che sono molte volte motivati da discutibili interessi personali.

In ultimo l’espressione «non mi sento rappresentato da nessuno di questi politici», conclude le esemplificazioni più in voga in circolazione a motivare il “non voto”.

Tutti gli elettori dovrebbero avere coscienza che il loro voto contribuisce, insieme a quello degli altri, a orientare scelte fondamentali che riguardano il bene comune.

Disinteressarsi potrebbe significare che minoranze culturali nel Paese impongano per legge orientamenti nell’organizzazione dello Stato e della società, pericolose o devianti dai principi di uguaglianza, libertà, solidarietà.

La democrazia, l’assistenza sanitaria universale, il sostegno previsto per le persone disagiate, il diritto al voto, al lavoro, il concetto che la Legge è uguale per tutti, sono principi che possono essere modificati o aggirati mettendo mano alle Leggi e alla Costituzione avendo le opportune maggioranze parlamentari.

Se arrivassimo a percentuali di astensioni più alte potrebbe accadere proprio questo. Supponiamo che un giorno vadano a votare solo il 40% degli aventi diritto e che un partito raccolga il 21% di questi voti. Significherebbe, fatti in po’ di conti, che solo 9 milioni di cittadini potrebbero indirizzare le politiche, l’organizzazione dello Stato, la convivenza civile a fronte di 46 milioni di aventi diritto al voto. Sarebbero poco più del 19% degli elettori!

Il 15% degli italiani se calcoliamo tutti i cittadini, anche quelli che non hanno ancora l’età per votare, imporrebbero a tutti gli altri le regole della convivenza civile. Queste considerazioni ci fanno concludere che la legittima decisioni di astenersi dal voto dovrebbe avvenire solo dopo un serio discernimento.

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