Vorrei, ma non posso

Lasciare la casa dei genitori? In Italia per i giovani è più difficile ri-spetto ai coetanei europei, oggi più di ieri.
Giovani

Alessio, romano, ha 19 anni, e dallo scorso settembre vive a Londra. «Ero andato in agosto, per partecipare a un concerto di uno dei miei gruppi preferiti – racconta –. I miei mi avevano fatto questo regalo per la maturità e così mi son fermato una settimana. Sono sempre stato un grande appassionato della lingua e della cultura inglese». Già da piccolo, infatti, aveva cominciato ad avere dimestichezza con l’inglese grazie al nonno che lo insegnava nell’esercito.

«Rientrato da quella settimana ho pensato che forse avrei potuto provare a fare la “pazzia” di trasferirmi. Ne ho parlato con i miei, ma, a dire il vero, ne ho parlato prima con me stesso, perché fare una scelta di questo genere non era indifferente. Comunque sono partito, ho cercato casa, un lavoro, e non escludo che l’anno prossimo, una volta imparato proprio bene l’inglese, mi iscriva all’università».

Nessuna fatica a trovare casa e dopo un mese arriva anche un lavoro in un pub vittoriano al centro di Londra. Alla mia domanda su cosa è cambiato nella sua vita a partire dalle cose concrete, tipo rifare il letto, sistemare la stanza, si fa una risata prima di rispondere: «Ohi, ohi, che domandona, spero che mia mamma non legga quest’intervista. Prima nella mia cameretta accatastavo tutto sulla scrivania; solo quando si accumulava la montagna cominciavo a mettere le cose a posto; lì devo essere regolare perché altrimenti non ce la faccio più a vivere. Poi devo incastrare i tempi per lavare i panni, fare la spesa, pulire casa. La cosa più significativa è stata gestire la mia vita senza appoggiarmi esclusivamente ai miei genitori anche dal punto di vista economico. Ho imparato cosa vuol dire fare economia familiare, rispettare le scadenze di affitto, abbonamento ai mezzi pubblici… Altro che chiedere in continuazione a mamma e papà per andare a mangiare una pizza, uscire con gli amici e spendere senza pensarci! Per la prima volta mi son messo a risparmiare perché avevo l’obiettivo di comprarmi un computer nuovo e ci sono riuscito».

 

Alessio non ha fatto in tempo a diventare uno di quelli che in maniera sbrigativa vengono definiti “bamboccioni”. E certo come lui ce ne sono tanti che, finite le scuole superiori, lasciano casa in cerca di un lavoro. «Da noi i bamboccioni non esistono – afferma un’amica di Sassari – perché la stragrande maggioranza dei giovani deve per forza andare via dall’isola per costruirsi un futuro».

E già, non era questo il caso del nostro giovane romano, ma certo è l’altra faccia della medaglia di un’Italia nella quale i giovani non hanno vita facile e in alcune regioni ancor meno.

Le generazioni nate fra il 1974 e il 1994 hanno pagato il costo più alto della crisi economica in corso, sia a livello di occupazione che di retribuzione. A certificarlo, un organismo autorevole, l’Ocse (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) secondo cui in questo senso siamo tristemente al primo posto fra i trenta Paesi più avanzati del mondo, seguiti, a distanza, dalla Spagna. In pratica il 60 per cento dei precari sono nati dopo il 1974; infatti su un milione e 870 mila di non lavoratori, oltre un milione di persone ha meno di 34 anni.

È evidente: quello di una mancata autonomia economica è forse il fattore principale che impedisce a un giovane di lasciare la casa paterna. E non sarà un caso se da noi il 70 per cento dei giovani fino a 30 anni continua a vivere con mamma e papà mentre in Gran Bretagna la percentuale è del 28 per cento e in Svezia del 18 per cento. La sociologa Chiara Saraceno spiega: «Nel Nord Europa, dove le borse di studio vengono assegnate in modo più ampio e dove esiste un welfare per i giovani, è considerato anomalo che un ragazzo resti in famiglia. E poi il mercato immobiliare: dove gli affitti sono accessibili i giovani se ne vanno».

E se un altro fattore viene indicato nella durata degli studi che si prolungano fino a 25 e anche 30 anni, non si può escludere anche l’aspetto “culturale” della vicenda, ovvero come veniamo educati. Secondo una ricerca Istat il 44,8 per cento in famiglia «sta bene», mentre il 7,1 per cento dei maschi afferma di «non sentirsela» di vivere da solo a fronte del 4,9 per cento delle coetanee. E parallelamente il 56 per cento delle madri non ritiene necessario insegnare ai figli a cucinare.

Forse ha ragione chi sostiene che non conta se si rimane o meno a casa, ma come si vive. Se uno non ha la possibilità di mantenersi del tutto, ma si dà da fare tanto per la gestione quotidiana che per l’aspetto economico, sarà più bamboccione di uno che va a vivere fuori casa ma coi soldi di mamma e papà?

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