Volti e storie del rione Sanità
Ogni qualvolta mi capita di ritornare a Napoli, non manco di fare una immersione nella Sanità, vera “isola” del centro storico che si va scuotendo di dosso la nomea degli anni in cui vi spadroneggiavano camorra e illegalità. E ciò grazie al coraggio e alla dedizione di uomini, donne e giovani che, attorno al parroco don Antonio Loffredo, sono divenuti artefici della sua rinascita valorizzando il locale patrimonio di storia, arte e fede attraverso attività produttive partite dal “basso”, condotte e sponsorizzate da privati. Centro propulsore di queste ed altre iniziative mirate al riscatto sociale di un rione che conta oggi una popolazione multietnica di 50 mila abitanti, è la parrocchia di Santa Maria della Sanità.
Mentre attendo l’apertura di questa basilica barocca considerata il capolavoro di fra’ Nuvolo, lo sguardo va all’elegante cupola maiolicata, al campanile avvolto da ponteggi per il restauro, all’incombente ponte voluto da Murat per il collegamento con Capodimonte, senza trascurare lo “spettacolo” sempre interessante del viavai di gente. In un angolo della piazza, là dove c’è un’aiuola verde, m’incuriosisce una scultura in bronzo policromo. Rappresenta un adolescente in bilico su due assi nelle quali è incastrato un pallone. Una targa lo indica come Genny Cesarano, il 17enne ucciso per sbaglio il 6 settembre 2015 durante un raid intimidatorio ordinato dal boss Carlo Lo Russo. Con una sorta di stiletto sembra intento a inserire la lettera “t” nella scritta “Sanità” incisa sul monumentino. Santità?
Intanto le porte della chiesa sono state aperte. Mi accoglie il luminoso interno a croce greca con presbiterio rialzato, espediente questo ideato dal frate architetto per inglobare la preesistente basilica paleocristiana. Ripasso gli scarabattoli di devozione, i dipinti delle cappelle, opera di artisti del calibro di Luca Giordano, Andrea Vaccaro, Pacecco De Rosa e Agostino Beltrano, il pulpito in commesso marmoreo e le scenografiche scalee che si elevano su su fino all’altare settecentesco con l’edicola della Madonna.
Nulla di nuovo? Non proprio. Da una grande immagine fotografica affissa ad un pilastro mi scruta un giovane dalla pelle abbronzata in abiti vescovili, il cui manto dorato altro non è che una di quelle coperte salva-vita in dotazione ai profughi sui barconi. Ecco un’altra cosa di cui chiedere spiegazioni a don Antonio, figura di prete libero, restio a legarsi alle stesse realizzazioni che ha contributo a far nascere, dacché c’è chi le porta avanti con passione e competenza.
L’intervista ha luogo nel chiostro ovale oggi sfigurato dall’invasione di un pilastro del ponte murattiano. Per arrivarci abbiamo attraversato una sacrestia vasta come una piccola chiesa, trasformata in palestra di boxe con tanto di sacchi pendenti dal soffitto. «Non avevamo altro posto per i ragazzi di qui che vogliono fare pugilato – ha spiegato il parroco notando il mio stupore –. Si allenano ogni martedì e giovedì, avendo come tutor le Fiamme Oro della Polizia». Un altro modo per sottrarre i giovani alla strada, per rigenerare da “comunità educante” un tessuto sociale a rischio.
Si comincia dalla recente attribuzione della laurea honoris causa in Architettura: «L’hanno data a me, ma riguarda il quartiere, la comunità – si schermisce don Antonio –, tant’è vero che la sera stessa dopo la cerimonia sia la pergamena che il tocco hanno sfilato durante la tradizionale processione del “Munacone” (san Vincenzo Ferrer, n.d.r.). Laurea che è un frutto delle sperimentazioni fatte con i prof della Facoltà, i quali hanno ridefinito spazi e arredi delle nostre piazze ascoltando le esigenze della gente, a conferma che l’architettura deve mettere l’uomo al centro, come misura del progettare».
A proposito della gigantografia: «È la provocazione di un fotografo, intesa a far riflettere sul tema dell’accoglienza. Il ragazzo è un nordafricano scelto per interpretare san Gaudioso, vescovo di Abitine (Tunisia) approdato qui su una barca senza vele e senza remi insieme alla sua comunità a causa dell’invasione dei vandali nel V secolo: uno dei patroni di Napoli».
E il monumento a Genny Cesarano? «Per dare una svolta a questo quartiere dove negli anni ‘70-80 si respirava violenza, il vescovo di allora Corrado Ursi mandò dei preti di punta, e con loro le suore di Maria Bambina a dare man forte alla “Tenda” dove don Antonio Vitiello accoglieva i tossicodipendenti. Fu Ursi, durante una messa qui, a dichiarare a gran voce: “Di sicuro la Sanità cambierà, e cambierà anche il nome: da Sanità a Santità”. Questa visione profetica colpì fortemente uno che Genny l’aveva conosciuto, Paolo La Motta, oggi artista e autore della statua che hai visto fuori. Quando venne a sottopormi il bozzetto, mi disse: “Don Anto’, questa è l’omelia di Ursi, il ragazzo col pallone è funzione di cambiamento”. E mai come adesso c’è bisogno di cambiare una società che vede gli uni contrapposti agli altri, di lavorare come Chiesa a costruire la comunità». Il pensiero va anche a padre Alex Zanotelli, il combattivo religioso comboniano, oggi tra i più generosi “costruttori” della Sanità.
L’originale scultura è stata donata dalla Fondazione di Comunità San Gennaro onlus, il cui obiettivo è di valorizzare il patrimonio storico-artistico del territorio e il suo capitale umano, in particolare quello dei giovani, intesi come elemento fondante della comunità e volano di economia. Quando si tratta di questo, don Antonio s’infervora: «La gente qui non si smuove con le chiacchiere, ma quando è folgorata dal bello. Ecco perché musica, teatro, pittura, danza!». Ed ecco perché le due orchestre giovanili di “Sanitansamble”, progetto ispirato nel 2008 dal modello didattico ideato in Venezuela da José Antonio Abreu.
«Attraverso l’arte e la cultura – prosegue il parroco – noi stiamo cambiando quello che sembrava un destino di morte, seguendo la profezia di Ursi. Io ci ho messo la mia pennellata, ma un altro è l’autore del quadro. Fatta la mia parte, debbo uscire di scena per non inquinare quanto ho costruito».
E poi le Edizioni San Gennaro, nate per diffondere lo strumento di cultura per eccellenza: il libro. Recente è la pubblicazione di Vico esclamativo, autrice Chiara Nocchetti: una ventina di storie di giovani che, lottando ogni giorno da questi vicoli dove «circolano tanto il veleno quanto il vitale ossigeno», hanno scelto di provare a trasformare questo quartiere. Carmine e Valeria, Myriam, Amara, Calimero, Susi, Giuseppe, Adele e gli altri… “pietre scartate” con le quali si va costruendo una nuova Sanità. Perché “esclamativo”? Lo spiega don Antonio quando invita a «vedere in ogni storia un punto esclamativo noto in passato come il punto ammirativo. Il punto che sanciva lo stupore e la meraviglia dell’incontro con la bellezza».
Lascio la basilica per raggiungere a Capodimonte uno dei tre complessi catacombali affidati in gestione, dopo anni di abbandono, ai ragazzi della cooperativa “La Paranza”: quello dove per qualche tempo venne sepolto san Gennaro e che da lui prende nome. In questo che è il più esteso cimitero paleocristiano del Sud Italia e l’unico sito del genere privo di barriere architettoniche aleggiano con le relative immagini le memorie di sant’Aspreno, di sant’Agrippino e di altri primi vescovi partenopei. Impressiona il ritratto a mosaico di un personaggio dalla pelle scura: Quodvultdeus (Ciò-che-Dio-vuole), che fu vescovo di Cartagine e amico di sant’Agostino, lui pure con Gaudioso costretto a fuggire dal Nordafrica invaso. Se i cristiani qui sepolti sono quasi nella totalità ignoti, sfuggono all’oblio – perché affrescati in ricche sepolture con i propri nomi – i coniugi Teotecno e Ilarità con la figlioletta Nonnosa in atteggiamento orante, Cerula e Bitalia, due matrone versate nelle Sacre Scritture a giudicare dai quattro Vangeli con i quali sono ritratte; e poi Eleusino, Cominia con la piccola Nicatiola in preghiera accanto alla più antica rappresentazione di san Gennaro, che altrove compare affiancato dai compagni di martirio. Altri volti, altre storie in aggiunta a quelle che formano il presente del rione Sanità e di cui costituiscono le radici vitali.