Voglio una vita integrata
«Voglio una vita spericolataaaaa, di quelle che non dormi maaaiiii». Vasco Rossi è ormai entrato stabilmente nella lingua italiana con la sua voce tutto tranne che perfetta, coi suoi versi orribilmente banali ma parlanti in modo esemplare, con il suo rock che s’atteggia a spaccatutto hard ma che in fondo è giudizioso e furbo, con un clin d’oeil sempre rivolto al botteghino. Con la fama da redivivo, visto che un paio d’anni fa lo si dava già per spacciato per via del suo cuore ballerino – un po’ come quello di Pino Daniele -, sabato d’un colpo solo il nostro Risuscitato da balera riunirà il suo popolo, 220 mila persone.
Confesso che nei miei inizi da giornalista musicale, un’era geologica fa, quel Vasco proprio non mi andava giù, così come non apprezzavo Renato Zero: entrambi mi parevano troppo fabbricati per essere autentici, troppo gigioneschi per essere artisti, troppo sbilanciati sulla comunicazione rispetto alla musica. Pensavo che sarebbero stati risucchiati nel vortice dello showbiz: e invece eccoli ancora qui, arzilli settantenni, o quasi, sempre a calcare palchi e studi televisivi. Perché sono ancora qui?
Perché hanno saputo cogliere il vocabolario e l’emotività della fine del “secolo breve” in una semplicità e immediatezza di linguaggio formale vincente. Atteggiandosi a rivoluzionari quando erano i più integrati di tutti nel business della musica rock e pop, spingendo alla trasgressione anti-sistema ma stando attenti a rimanere nell’ambito della propria vita privata, senza pericolosi sforamenti politici, hanno creato la categoria dei leader-non-leader, dei sobillapopolo non di professione, paradossalmente la stessa generazione dei Grillo e dei Berlusconi per intenderci. Gente che aveva certamente vissuto a cento all’ora, e che perciò proponeva la vita come unico criterio di giudizio, che faceva a meno dell’Accademia e del Palazzo per dare un orgoglio al singolo sfigato. Tanto di cappello.
Rimango però dubbioso su un fatto: pretendere che la vita da sola possa risolvere tutti i problemi e possa trovare un senso in sé stessa. Certamente, se non si vive la propria vita fino in fondo non si può nemmeno essere umani. Ma la vita è un continuo va e vieni tra concretezza dell’esperienza e concretezza della cultura, del pensiero (e dello spirito). La vita senza pensiero (e senza spirito) diventa vitalismo. Un “ismo” tra i tanti. Una tentazione che prende anche tanta altra gente compresi i cattolici, non solo i seguaci di don Vasco.