«Voglio la vita»

Nell'ultimo appuntamento mensile della rubrica continuiamo il racconto di Gino Lubich sugli anni di guerra, contenuto nel libro Chiara mia sorella, e di quella volta in cui, la futura fondatrice dei Focolari gli chiese aiuto per salvare due criminali di guerra...
Chiara mia sorella

La spiritualità che stava nascendo attorno a Chiara Lubich durante gli anni della seconda guerra mondiale si fece sempre più evidente anche agli occhi di suo fratello Gino. E alcune delle imprese in cui anche il giornalista de L’Unità  venne coinvolto in prima persona, hanno davvero del rocamabolesco per il coraggio con cui questo nugolo di ragazze affrontava anche le situazioni più difficili.

 

Proseguendo il racconto tratto dal libro Chiara mia sorella. Intervista a Gino Lubich, della collana Passaparola di Città nuova editrice, proseguiamo la narrazione di quegli anni attraverso le parole di Gino. 

 

Quand’è che cominciasti a renderti conto che c’era dietro uno spirito un po’ fuori del comune?

«Quando s’imbarcarono in imprese arrischiate, le amai perché vedevo gente che faceva sul serio. Però a me non raccontavano mai niente, forse perché non avevamo mai tempo d’incontrarci. Mi venivano a ondate le notizie, e c’era a volte da rimanere frastornati. Figurati che arrivarono addirittura a nascondere dei famosi criminali di guerra…».

 

Magari coinvolgendoti in prima persona…

«Proprio così. Io ero allora uno dei capipopolo dei tribunali, mi avevano affidato il tribunale per giudicare i delitti legati alla guerra e al fascismo (non ho mai condannato uno!). Poi dirigevo il giornale di Trento ed ero dirigente del Partito comunista lassù. Comandavo l’Anpi (Associazione nazionale dei patrioti in Italia), la polizia partigiana, ero nella nuova dirigenza della democrazia che stava iniziando allora. Un giorno capita dentro una che non avevo mai visto. Dice che Silvia ha bisogno di parlarmi presto. “Vengo subito”. Mi faccio accompagnare in motocicletta da un partigiano, arrivo alla casetta in piazza Cappuccini e trovo lì mia sorella che mi dice: “Senti, Gino, go da domandarte en gran favor. Mi so tut quel che i t’ha fat, so le torture che i t’ha fat, so come che te la pensi, ma go fiducia lo stess…”. “Dimmi, cosa devo fare?”. “ Ghe lì de dentro – e indicò una porta – ‘na persona che te conosi molto ben… su, dai, va’ a parlarghe. Dopo dicidi ti”. Entro in quella cameretta e di fronte alla porta, seduto su un piccolo sofà, vedo uno col volto seminascosto da una sciarpa. “Buongiorno!”. Chiudo la porta, l’altro tira giù la sciarpa e… era – come dire? – il boia del Trentino, il capo dei fascisti di Trento.

 

E lì una scena disgustosa: lui si alza, si butta a terra e comincia a baciarmi i piedi. A quest’atto di vigliaccheria, quasi mi vien da dargli un calcio, da schiacciarlo come un ragnetto (pensa al mio stato d’animo!); invece mi trattengo: “Beh, si sieda. Che cosa vuole da me? E lui: “La vita, voglio salva la vita”. Questo mi metteva in un imbarazzo spaventoso. Cosa potevo fare? “Ma lei deve consegnarsi, lei è un criminale…”. “Ah, se mi consegno mi fucilano!”. A questo punto lui si mise a piangere e a giustificarsi delle colpe attribuitegli. E a me venne una tal pietà per quest’uomo, probabilmente anche lui travolto dagli avvenimenti e dalla sua stessa ambizione… Beh, finì che trovai il modo di fargli passare il confine. Tornò anni ed anni dopo. Ma ancora più grossa fu quella volta che nascosero in casa la Pantera Nera, un’ebrea che aveva tradito gli ebrei. Era stata al servizio di bande nere che torturavano a tutto spiano. Riconobbi che era lei perché c’era la sua foto su un manifesto dove si diceva che era ricercata per farle scontare le sue colpe. E anche per lei Chiara mi chiese aiuto. Le risposi: “Con questa non so cosa fare veramente. Io faccio in modo che quelli della polizia popolare (la polizia partigiana) chiudano un occhio, ma voi dovete trovare un’altra strada per portarla via”. A Chiara bastò. Difatti se ne persero le tracce.

 

Erano pazzie di cui non riuscivo a darmi ragione, e un po’ rimanevo incantato. Era il momento in cui tutti tiravano un respiro e loro si occupavano di disgraziati che erano stati la causa di tutto quel massacro. Ci sarebbero anche altri episodi che però non sono mai venuto a sapere con precisione. Comunque fecero per loro quello che avrebbero fatto per chiunque: anche per i partigiani, se ne avessero avuta l’occasione. Anzi si dettero da fare per loro senz’altro, perché quella che mi mandò dentro il carcere quel pacco, la Duccia Calderari, che collaborava con me proprio nei gradi alti della resistenza e nello stesso tempo frequentava le pope, probabilmente avrà segnalato loro qualche caso di partigiano che rischiava di essere ammazzato e per il quale avranno fatto le stesse cose che fecero per i fascisti e i nazisti. Questa parte non è conosciuta; la conosco io che dal mio angolo vedevo queste, che sono cose stupende».

 

A questo punto ti sarai accorto che stava nascendo una spiritualità nuova…

«No, quel loro esser dedite ai poveri, quel comportarsi come “giullari di Dio” o “pazze del Signore”, quel fare cose fuori squadra sotto tutti i punti di vista, quell’andare controcorrente, puntando ad una meta stupenda, io lo vedevo inizialmente come il francescanesimo rinnovato, come una rinascita in seno al francescanesimo (san Francesco è il mio santo preferito). Per me era evidente, almeno all’inizio. Perché io pensavo tanto al rinnovamento della Chiesa già da allora, urtato dalla vita borghese, dal tran tran, dal dire e il non fare. E poi da una pomposità che non coincideva con i miei parametri. Ma questo rinnovamento lo vedevo sotto una veste francescana».

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