Voglia di tenerezza

Il nuovo film di Gianni Amelio estrae la carta del sentimento come strada per ritrovare sé stessi, oltrepassando i drammi della vita.

Gianni Amelio è un regista diverso dagli altri. Timido, delicato, sfuggente anche. Una carriera non lunghissima ma ragguardevole, iniziata nel 1982: una decina di lungometraggi, alcuni noti e premiati (Il ladro di bambini, 1982; Le chiavi  di casa, 2004), televisione, alcune opere letterarie come il recente romanzo Politeama. Schivo lo è, essenziale e profondo, pure. In un cinema nostrano che galleggia tra commedie-fotocopia celebrate come realistiche (talora imbarazzanti, e non facciamo nomi per amor di patria) e in uscita settimanale, e altri lavori pseudo-intellettuali, il cinema di Amelio si situa come il classico cinema d’autore. Che ha sempre qualcosa da dire, di pensato e di osservato.

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Oggi, il regista calabrese esce con La tenerezza. Cos’è la tenerezza?. In conferenza stampa Amelio ha citato papa Francesco  come testimone di questo bisogno di amore, di un tipo di affetto che liberi da tante sofferenze o complessi, chiusure e diffidenze.

Difficile da fare. Lorenzo, avvocato in pensione dai trascorsi non immacolati sia come lavoro che come marito, vive in un bel palazzo antico nel cuore di Napoli. Solo, scorbutico, pessimista, “diseduca” il nipotino non portandolo a scuola, si nega al rapporto con i figli, lo squattrinato Saverio e la brusca Elena, chiusa  come il padre, cui però resta ostinatamente legata, anche se lui nemmeno la considera.

E qui Amelio, con fine psicologia, apre uno spiraglio sul rapporto esclusivo che le figlie tendono istintivamente ad avere con i padri, anche se essi non lo vogliono, al contrario dei maschi, più indipendenti. Lorenzo comunque rifiuta di fare il padre. Ma la vita gli riserva una sorpresa. Accanto a lui viene ad abitare una giovane coppia con due bambini: lei, Manuela, è solare e positiva, lui, Fabio è introverso e problematico, razzista, non ama la Napoli vitale e disordinata in cui è costretto a vivere. È Manuela a rompere le difese brusche del vecchio, ad invitarlo a casa, a farlo giocare con i bambini, che il marito invece ignora (Amelio diventa un poeta malinconico quando parla della solitudine dei piccoli). Manuela gradualmente e inconsapevolmente riesce a far riscaldare il gelo del vecchio, a fargli entrare  una voglia di sentimento, chissà, di tenerezza. Lui, che ora ignora i figli, deve capire, secondo la giovane  donna «che essi da grandi vanno amati in un modo diverso».

Ci vuole un fatto sconvolgente però perché Lorenzo ritrovi la necessità della condivisione, dell’affetto. Le sue reazioni dinanzi al dolore sono dure, pesanti e contrastanti.  Forse basterebbe sfiorare con pudore la mano di una persona perché il cuore inizi a sciogliersi?

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Amelio mette insieme molte cose, con uno stile sobrio − una assoluta novità oggi −, momenti lenti − altra novità −, spessore psicologico e soprattutto sguardi, che sono parole dell’anima (grazie alla splendida fotografia di Luca Bigazzi). C’è nel film una pudicizia che ha radici intime, antiche, uno sguardo che osserva il nostro mondo con doloroso stupore: i bambini non amati, i vecchi isolati, i figli incapaci di comunicare, la società rumorosa. E Napoli, bella nella sua vulnerabilità.

Molti temi accennati, toccati con pudore, ma mai indifferenza. Spicca Lorenzo, emblema del bisogno d’amore, di voler bene, dei vecchi amareggiati anche di sè stessi. E qui la presenza di un grande Renato Carpentieri dà sapore e verità al film, insieme a figure di contorno come Elio Germano e Micaela Ramazzotti nei ruoli, ormai consueti, della donna ingenua e dell’uomo nevrotico. Perfetta Giovanna Mezzogiorno, la figlia Elena, icona di una glacialità apparente e di ricerca d’affetto.

Contro il mondo di solitudine nel chiasso che ci divora, Amelio estrae la carta della tenerezza, del sentimento come strada per ritrovare sé stessi, oltrepassando i drammi della vita. Non è poco per un film di un autore che ha sempre qualcosa di nuovo da dire.

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