Voglia di democrazia islamica
Le violente repressioni in Libia spingono verso ineludibili riforme che contemplino pluralismo e partecipazione. Potrebbe riservare novità la componente religiosa
Non si ferma l’opera di violenta repressione delle manifestazioni ordinata dal colonnello Gheddafi contro i suoi stessi compatrioti che, da una settimana, sono scesi in varie piazze libiche per chiedere riforme e democrazia. L’esercito ieri ha persino bombardato la folla che assediava Tripoli, provocando una carneficina stigmatizzata da tutto l’Occidente. L’onda araba che ha investito in queste settimane il Nord Africa non ha risparmiato neppure il paese libico, quasi un effetto domino, dove dopo la caduta della prima pedina, la Tunisia, tutte le nazioni a ruota sembrano destinate a seguirla. Per capire quali scenari si stanno aprendo a seguito di queste imponenti e diffuse manifestazioni abbiamo raggiunto Pasquale Ferrara, esperto di relazioni internazionali.
Le sollevazioni libiche erano inattese, mentre non lo erano le repressioni del dissenso, già attuate in precedenti manifestazioni. Cosa ha spinto la gente a scendere in piazza?
«Siamo in una situazione in cui non si può più parlare di rivolta del pane, come in Tunisia, soprattutto nel caso della Libia, dove la popolazione, grazie alla ricchezza delle fonti energetiche, è in condizioni economiche decisamente migliori rispetto ad altri Paesi dell’area. La rivolta non è dovuta all’indigenza, ma ad altri due fattori. Il primo è che il Paese non si è mai definitivamente amalgamato nelle sue componenti regionali ed etniche. Rilevante è che la regione della Cirenaica, quella di Bengasi, per intenderci è punto di riferimento di questa sollevazione.
Il secondo fattore è l’aspirazione ad aperture democratiche. Non conta solo il miglioramento economico, per la popolazione, ma c’è un desiderio intrinseco di pluralismo e di democrazia. Bush aveva avuto ragione, quando sottolineava la necessità di diffusione della democrazia nel mondo arabo, ma ha avuto torto sulla modalità, perché la democrazia non è stata imposta o esportata, ma è endogena, nasce da un’esigenza interna. Questo significa che ha i suoi tempi, i suoi cicli, le sue motivazioni e c’è una componente di assoluta imprevedibilità, legata alle maturazione della cultura politica del paese».
Ci spieghi meglio la centralità della Cirenaica nella crisi libica?
«La regione della Cirenaica è una regione decentrata rispetto a Tripoli ed è il territorio della senussia, una minoranza islamica, una setta se vogliamo dire, a cui ha fatto riferimento anche la resistenza italiana dal 1911 in poi. Quindi la storia di questa terra viene da lontano: qui c’è una tradizione storica di autogoverno che non si è mai totalmente integrata col resto della nazione e quindi ci sono vari fattori di aspirazione democratica, un fattore tribale etnico e un fattore crescente di influenza dell’integralismo islamico, quindi una miscela composita che non si può caratterizzare in modo netto».
A proposito di caratterizzazioni. Tutto il nord Africa in questo momento sembra caratterizzato invece da una rivoluzione diffusa…
«Non si può parlare di nord Africa in senso generale, si semplifica troppo. Ogni paese va guardato nella sua specificità, è una scorciatoia inaccettabile riunire insieme tutte queste realtà, è una semplificazione che non ci consente di capire nulla. Certo in diversi di questi paesi è elemento comune che il mondo euro-atlantico, Europa e Usa, hanno appoggiato dei regimi autocratici battezzati con un neologismo tremendo: le democrature, una via di mezzo, cioè tra democrazie e dittature. Hanno favorito la continuità dei governi pensando che questo consentisse stabilità e non ci si è preoccupati di tutti i fattori di esclusione. Ad esempio in Tunisia è emersa drammaticamente l’esclusione economica: c’era la cerchia di Ben Alì e dei suoi amici che prosperava, mentre tanti giovani erano senza lavoro».
In alcuni Paesi si aggiunge l’esclusione sociale e in altri quella politica…
«In alcune nazioni ci sono vari movimenti a ispirazione islamica, che non significa islamisti – cioè dediti alla violenza politica –, che sono stati previamenti esclusi dall’agone politico e non hanno potuto partecipare alle elezioni e qui è sempre il caso della Tunisia e dell’Egitto. Ora la grande scommessa è che queste forze siano incanalate dentro processi democratici, e quindi da parte dell’Unione europea necessita maggiore apertura verso quei gruppi che rinunciano alla violenza e accettano le regole della democrazia e quindi sono sicuramente delle forze politiche di riferimento. Non dobbiamo dimenticare che anche in Italia e in Germania abbiamo avuto i cristiano-democratici, cioè forze politiche di ispirazione religiosa e quindi perché non si può pensare a una democrazia islamica, non islamista e quindi religiosamente ispirata dal punto di vista islamico, senza fondamentalismi di sorta? Il grande punto di riferimento della regione rimane la Turchia con l’AKP di Erdoğan. Alla luce di quello che sta succedendo in nordafrica è miope la posizione di chi ritiene che la Turchia debba restar fuori dall’Europa, perché solo in qualche modo normalizzando il rapporto democrazia e Islam all’interno dei parametri dell’Unione Europea si può pensare ad un effetto positivo per gli altri».
Che risvolti avranno queste continue rivolte e particolarmente quella libica, la più vicina all’Italia?
«È difficile prevedere qualsiasi cosa. Si è detto che l’Europa non è stata in grado di prevederla, che i politologi non sono stati in grado di interpretarla, ma quando la storia si mette a correre in questo modo non ci sono previsioni che reggono. Chi avrebbe potuto prevedere il crollo del muro di Berlino? Chi la rivoluzione in Iran? La storia prende delle accelerazioni ed è difficile prevedere che direzione avrà. Qualcuno ha stigmatizzato l’eccessiva cautela italiana nella situazione libica, ma non è facile intervenire neppure per la Gran Bretagna e la Francia che con la Libia hanno aperto tante relazioni. Per noi c’è il retaggio storico-coloniale e poi l’ondata di immigrazione che si prevede e rende molto difficile prendere posizione in modo esplicito».
Ma l’Europa sembra invece aver preso le distanze in modo più chiaro…
«Preciso che in certe circostanze, dichiarare pubblicamente sostegno ai movimenti di piazza non fa bene neppure a questi movimenti che spesso sono accusati di essere manovrati dall’esterno e quindi non sempre queste attestazioni sono gradite dagli stessi. Quello che dovremmo dire con serietà, invece, è che queste proteste debbano svolgersi liberamente e che non bisogna mettere in atto misure repressive, né tantomeno usare la violenza di stato e questo in ragione dell’attaccamento che l’Europa deve continuare ad avere per i diritti umani e per la libera manifestazione del pensiero. Tutte le altre decisioni sono estremamente complesse».