Vivere sull’acqua

A Fiavé di Bleggio, in Trentino, in uno scenario naturale di grande suggestione, la ricostruzione di un villaggio preistorico dell’età del Bronzo, insieme al locale Museo delle Palafitte, ci restituisce la vita delle comunità rurali di 3.500 anni or sono
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Sito palafitticolo di Fiavé. di Bleggio. In quel che rimane dell'antico lago di Camera si possono osservare i pali originari che sorreggevano le abitazioni (Foto di ArcheoTrentino - Opera propria, CC BY-SA 4.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=51177077)

Montagne che franano, fiumi che esondano sotto piogge di inaudita violenza, abitati con strade trasformate in torrenti di fango che tutto travolgono, pianterreni cantine ed esercizi commerciali devastati, vittime e disperazione di chi, superstite, ha perso tutto. A immagini come queste, purtroppo, ci stiamo facendo l’abitudine, mentre cresce la consapevolezza che quello che ci ospita è un pianeta fragile, impotente a reggere i soprassalti dei cambiamenti climatici. Urge stabilire una nuova alleanza con l’acqua, affinché da fonte di vita non diventi causa di lutti e devastazioni.

I popoli europei della preistoria, che con fiumi e laghi erano in stretto rapporto come a fonte primaria di sostentamento, avevano escogitato – affinché questa convivenza vitale non si tramutasse in rischio e in perdita – i villaggi palafitticoli, sostenuti cioè da pali piantati lungo le rive lacustri o di un corso d’acqua, quando non nell’acqua stessa: acqua sì, a portata di mano, ma in modo da viverci sopra, al sicuro.

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Plastico del villaggio Fiavé in fase di costruzione con accanto (in alto nella foto) il “campo di pali” del villaggio abbandonato (Foto di Paolo Bellintani – Opera propria, CC BY-SA 4.0, commons.wikimedia 89135332)

I resti di oltre mille di questi insediamenti, importantissimi per lo studio delle comunità umane europee tra il 5000 e il 500 a. C., costellano una vasta area che va dalla Scandinavia alle Isole Britanniche all’arco alpino, dove 111 sono quelli dichiarati nel 2011 dall’Unesco patrimonio dell’umanità. La loro scoperta nelle torbiere formatesi all’interno di antichi bacini lacustri inizia nell’inverno 1853-54, quando nell’Europa continentale, per effetto di una breve crisi climatica, si registra un notevole abbassamento del livello dei fiumi e dei laghi, che porta allo scoperto, in due località svizzere, altrettanti “campi di pali”, insieme a utensili in pietra e ceramica e ad altri manufatti in legno, fibre vegetali e cuoio perfettamente conservati dal fango in assenza di ossigeno.

Nel solo Trentino esistono due siti archeologici del genere: il villaggio palafitticolo di Molina di Ledro e quello di Fiavé di Bleggio, entrambi nelle valli Giudicarie (Trento). Il primo, sulle rive del lago di Ledro, comunicante con quello di Garda; il secondo sull’altopiano di Lomaso, dove pure esisteva un lago, il Carera, oggi ridotto ai minimi termini. Sia l’uno che l’altro sito, oltre ai pali originali che sorreggevano le abitazioni e a due musei ben inseriti nel paesaggio, esibiscono le ricostruzioni di alcune capanne: strutture su palafitte composte da rami, frasche, stuoie di canne e paglia intrecciata.

Accostiamoci ad una delle cinque riprodotte in quel di Bleggio, e con l’immaginazione facciamoci contemporanei dei loro remoti abitanti, aiutati dalla spettacolare cornice naturale delle montagne e dei rilievi boscosi, rimasta pressappoco la stessa di 3500 anni or sono.

Il primo segnale di vita in questo complesso abitativo è il fumo dei focolari che si eleva nell’aria cristallina. Poi i rumori, via via più distinti man mano che ci avviciniamo: pianti o risa di bimbi, richiami di madri, belati di caprette e abbaiamenti di cani.

Sulla piattaforma lignea che sorregge le capanne, come pure sulle passerelle di collegamento alla terraferma e alle altre abitazioni lungo la sponda del lago, tra festoni di pesci messi ad essiccare al sole e all’aria, si distinguono figure di donne, bambini e anziani per lo più. Assenti, in quest’ora mattutina, la gran parte degli uomini: li immaginiamo intenti, su imbarcazioni scavate in tronchi d’albero, a perlustrare le zone lacustri più adatte alla pesca, a sistemare trappole per la selvaggina nei boschi o a barattare i prodotti locali con le comunità vicine.

Qua e là, nei dintorni del villaggio, si allungano strisce di terra coltivata e, più in lontananza, pratoni verdi punteggiati dal bianco di greggi e di qualche mucca al pascolo.

Diamo una sbirciata in una delle capanne, ora deserta. Subito, nella penombra, ci investe un tanfo misto di legna bruciata, di cucina, di pelli, di esseri umani ed animali: galline e caprette che trascorrono le notti al chiuso con i membri del clan, separate da un tramezzo di legno, come ancora agli inizi del secolo scorso si poteva osservare in certi sperduti e poveri borghi della nostra Penisola.

Nascosti dietro una tenda i giacigli per il riposo notturno, lo spazio maggiore del soggiorno, per così dire, è occupato dalla cucina e dal focolare, costituito da un contenitore fittile per le braci. Assenti i mobili, tranne un paio di rudimentali panchetti, in compenso abbondano sulle pareti mensole e pioli dove trovano posto gli utensili indispensabili per la vita quotidiana: piatti, scodelle, tazze, teglie, vassoi, mestoli, pentole d’ogni dimensione, in legno o in terracotta. Riconosciamo, fra gli altri, dei frullini per la preparazione del burro. E poi armi: pugnali, archi e frecce. E attrezzi da lavoro: secchi, mazze, trapani, falcetti e asce. Negli angoli, capienti orci e ceste di vimini intrecciati fungono invece da contenitori delle derrate alimentari: grano, corniole, nocciole, mele e pere.

Un rozzo telaio in legno con una tela già iniziata, mantenuta in tensione da pesi di terracotta, rappresenta una delle occupazioni più ordinarie dell’universo femminile. Quanto agli ornamenti della donna – collane e bracciali di conchiglie, osso, denti di animali e pietre colorate –, non li vediamo perché li portano addosso. Non mancano, come dimenticati sul pavimento, i giochi dei bambini: piccoli animali in argilla cotta al forno.

C’è, in questa capanna preistorica dell’età del Bronzo, qualcosa di familiare, che ricorda certi interni di malghe e rifugi alpini di oggi: sopravvivenza di usi e costumi attraverso i millenni, che rende meno misteriosi e più vicini a noi coloro che l’abitarono.

Oggi il Museo delle Palafitte, con sede in un edificio rurale nell’abitato di Fiavé, il Parco Archeo Natura e l’area archeologica di Fiavé-Carera costituiscono vivaci attrattori per le scolaresche di bambini e ragazzi, che attraverso un gioco di ricerca e sperimentazione sono invitati a ricostruire le fasi di produzione, preparazione e conservazione degli alimenti preistorici, a realizzare secondo le tecniche antiche piccoli manufatti in argilla o in legno, oppure a cimentarsi – con l’uso di reperti in copia – nella macinatura dei cereali e nella coltivazione delle piante. Certo non sarà facile per questi giovanissimi dimenticare un’esperienza così immersiva

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