Vivere l’atletica come persone

A tu per tu con Franco Arese, campione nel mezzofondo, oggi ai vertici dell'atletica italiana.
Franco Arese

Lui ci crede. Più che mai. «Le 2.800 società, i 150 mila tesserati, 10 mila in più nel 2009, e i successi mondiali in campo giovanile testimoniano che l’atletica italiana è viva e che abbiamo bravi tecnici sociali, quasi 500, capaci di far emergere i talenti». Franco Arese è il presidente della Federazione italiana di atletica leggera, la regina delle discipline olimpiche, che molti vorrebbero sotto accusa per i recenti modesti risultati, non ultimi i Mondiali di Berlino, da cui siamo tornati con “zeru tituli”.

Dietro i modi pacati, conserva la grinta dell’atleta, quella del vincitore dei 1.500 metri agli Europei di Helsinki nel ’71: «Le critiche sono importanti se costruttive, altrimenti fanno male al movimento sportivo. Nel nostro ambiente tutto è troppo legato al raggiungere dei risultati, in fretta, senza guardare a niente, senza avere il tempo di costruire. Per far crescere un atleta ci vogliono dieci anni: se poi ha talento diventa anche un campione». In questa direzione si sta muovendo la federazione: «Gratificare coloro che si impegnano, i tecnici, così non se ne vanno nel calcio, e gli atleti, motivandoli ed assistendoli. E stare con i piedi per terra, crescere con la testa e non solo con le gambe. In questo senso va il progetto dei tutor – Mori, Dorio e Baldini – che, affiancando i tecnici, accompagneranno con continuità i giovani migliori, 5 o 6 a testa. Per i ragazzi sono un esempio».

 

In tempo di boom del calcio, l’atletica resta ancora la regina delle discipline sportive?

«Alle Olimpiadi solo l’atletica riempie gli stadi con 90 mila persone. Sono in questo mondo dal ’61. L’atletica è lo sport più bello, ma anche più difficile, perché universale: le 209 nazioni in gara, la polverizzazione dell’Urss che ha moltiplicato i talenti, la Gran Bretagna che sta investendo risorse enormi in vista delle Olimpiadi, la Germania che ha una tradizione importante, gli africani, nati per correre, che in altri sport, a parte il calcio, non sono così presenti…».

 

E in Italia?

«Oggi chi viene dalle grandi città è fragile muscolarmente, perché non fa movimento. L’atletica scolastica, dai giochi della gioventù ai campionati studenteschi, come quella parrocchiale, era un’esperienza esaltante, che attirava i giovani, importante anche per un reclutamento vero. Occorre collaborazione fra il tecnico sociale, che scopre e segue l’atleta, e i tecnici nazionali. Abbiamo problemi a 18 anni, quando continuare ad allenarsi e gareggiare diventa un impegno gravoso. Per certe cose dobbiamo tornare un po’ indietro: ritrovare il gusto della fatica, del lavoro quotidiano, dell’impegno, con meno pressapochismo. Oggi non possiamo più contare su qualche talento estemporaneo che nasce dal nulla».

 

Lo sport italiano è la settima azienda nazionale per fatturato con i suoi 450 milioni di euro: come si fanno fruttare questi soldi?

«Con questi soldi, comunque sempre precari perché legati alla finanziaria, lo sport mette in moto un indotto enorme in spese organizzative, trasporti, vitto e alloggio. Va poi considerato il contributo sociale offerto dallo sport: chi fa sport perde meno tempo in altre cose, non ha la mentalità da discoteca, va a dormire prima, non si ubriaca, ha un approccio diverso alla vita, ha vantaggi per la sua salute. Lo sport comincia con il volontariato, ma oltre un certo livello è un lavoro: dobbiamo far fruttare questi soldi nel modo migliore dandoli non a pioggia, ma a chi merita!».

 

Dal giorno dell’oro europeo ad Helsinki ’71 cosa è cambiato?

«La vita è più frenetica: il mondo andava più piano, avevi tempo di leggere e di pensare. Stavo due mesi l’anno in Finlandia ad allenarmi, a gareggiare, senza manager, organizzando tutto da solo. Oggi attorno a un atleta c’è un mondo di gente che sceglie per lui. Allora lo sport era un’esperienza di vita: ho imparato l’inglese, ho girato il mondo, ho costruito contatti e rapporti che mi hanno permesso oggi di avere un lavoro (è presidente di Asics Italia, n.d.r.). Vivevo l’atletica come persona, oggi la vivi solo come atleta, per il risultato che fai. Andavo a conoscere le famiglie degli emigrati: quando a Toronto ho battuto un americano, ho visto gli emigrati italiani piangere di gioia. Erano cose che ti facevano riflettere. I giornalisti dormivano in camera con me, erano amici: oggi, se sbagli una gara, dicono che sei finito. Vediamo la fatica che facciamo a riprendere un atleta che non riesce a fare risultato. Allora avevi le tue pause: oggi è molto più difficile diventare campioni».

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