Vivere l’amore come luce di Dio nel mondo

I temi e le novità dell'enciclica "Deus caritas est" di Benedetto XVI ad un anno dalla sua pubblicazione.
Deus caritas est

La prima enciclica di un nuovo Papa suscita normalmente una grande curiosità. Ci si attende, infatti, che in essa egli presenti il “programma” del suo pontificato o almeno i nuclei principali della sua linea pastorale. Nel caso di Benedetto XVI, dopo la sua lunga traiettoria precedente come responsabile della Congregazione della dottrina della fede e la sua ottima reputazione come teologo di grande levatura, l’aspettativa si caricava di ulteriori domande.

Sarà capace questo grande teologo di rivolgersi al popolo di Dio come pastore? nel suo stile predominerà il suo antico ruolo di “guardiano dell’ortodossia” o saprà aprire delle vie nuove? il documento avrà il tono ammonitorio e difensivista del famoso “Rapporto sulla fede”? Bisogna dire che Benedetto XVI non solo ha deluso queste aspettative, ma ha piacevolmente sorpreso tutti.

In primo luogo per il tema scelto. Parlare di Dio come Amore significa andare direttamente al cuore della fede cristiana, senza giri né prolegomeni. Se questo è il centro programmatico del suo pontificato, sia benvenuto. Inoltre, significa che ha saputo captare, pastoralmente, l’urgenza più necessaria dei tempi odierni, la radice dei nostri problemi: non solo l’assenza di Dio, ma anche il disconoscimento del suo Amore.

In secondo luogo, per il linguaggio usato. Con una scioltezza sorprendente ha saputo svincolarsi dai sentieri tortuosi attraverso i quali cammina frequentemente l’alta teologia, per esprimersi in un linguaggio semplice e catechetico, alla portata di tutti, con un ragionamento limpido, una sintassi lineare e per di più con la cortesia che si chiede al pensatore: la chiarezza.

In terzo luogo, perché ha saputo dare un impulso alla fede dei credenti e contemporaneamente con la sua abilità di teologo non ha evitato di affrontare con soavità e lucidità, e con uno stile decisamente dialogico e umanista, alcuni dei contenziosi più complessi suscitati dal confronto tra la cultura moderna e il messaggio cristiano. 

Un’introduzione magistrale 

Nell’introduzione, vera opera d’arte per la sua sintesi ed essenzialità, il Papa inaugura il suo discorso con la citazione delle tre affermazioni bibliche decisive per la fede cristiana in Dio amore, riunendo così in un solo sguardo tre elementi essenziali: l’evento (“Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui … abbia la vita eterna”, Gv 3, 16); l’esperienza (“Noi abbiamo riconosciuto l’amore che Dio ha per noi e vi abbiamo creduto”, 1 Gv 4, 16); la formulazione oggettiva della fede (“Dio è amore; chi sta nell’amore dimora in Dio e Dio dimora in lui”, ib.). E segnalando la novità decisiva: “All’inizio dell’essere cristiano non c’è una decisione etica o una grande idea, bensì l’incontro con un avvenimento, con una Persona” (n. 1).

In un unico passaggio, il Papa unisce, come fece Gesù, il nucleo della fede di Israele che l’israelita credente recita ogni giorno (“Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno solo. Tu amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze” , Dt 6, 4-5) con il comandamento del Levitico (“Amerai il tuo prossimo come te stesso”, 19, 18) ed esprimendo in una sola frase la novità che si manifesta in Gesù Cristo: siccome Dio ci ha amati per primo “l’amore adesso non è più solo un comandamento, ma è la risposta al dono dell’amore, col quale Dio ci viene incontro” (n. 1).

In questo modo l’enciclica disegna lo sfondo delle due parti che formano il documento. La prima, dedicata all’Amore di Dio e il suo vincolo intrinseco con l’amore umano; la seconda, riservata all’esercizio ecclesiale dell’amore al prossimo. 

Tanti amori o l’amore è uno solo? 

Nella prima parte, forse la più bella e nuova dell’enciclica, viene studiata l’unità e la distinzione dell’amore radicato nell’uomo e l’amore fondato sulla fede. Il Papa vuole rispondere ad una domanda centrale: “tutte queste forme di amore alla fine si unificano e l’amore, pur in tutta la diversità delle sue manifestazioni, in ultima istanza è uno solo, o invece utilizziamo una medesima parola per indicare realtà totalmente diverse?” (n. 2).

Egli stabilisce poi come modello di riferimento l’amore tra l’uomo e la donna “archetipo di amore per eccellenza, al cui confronto, a prima vista, tutti gli altri tipi di amore sbiadiscono” (n. 2). Qui troviamo subito una novità, perché il Papa, allontanandosi da un certo stile classico che tendeva a dare la priorità all’amore spirituale anche sul piano umano, concede senz’alcuna reticenza questa precedenza all’amore tra uomo e donna.

A partire dalle radici greche il Papa accompagna la sua riflessione con un dato decisivo. Per i greci, l’amore tra uomo e donna si esprimeva con il termine eros, l’amore di amicizia con quello di filia e l’amore disinteressato con quello di agape. Il NT, invece, impiega il termine filia per designare la relazione di Gesù con i suoi discepoli, non impiega mai la parola eros e, al contrario, dà molto rilievo al termine agape, il cui uso nella cultura greca era abbastanza marginale. Questo dato indica la chiara intenzione della fede cristiana di coprire la distanza rispetto alla comprensione dell’amore vigente in quell’epoca. 

Una visione integrale 

Analizzando dettagliatamente l’unità e la differenza tra eros e agape, e svincolandosi dalle visioni parziali tanto spiritualiste quanto materialiste, il Papa afferma che l’uomo non ama soltanto come corpo o come spirito: “è l’uomo, la persona, che ama come creatura unitaria” (n. 5). Egli offre quindi dell’amore una visione integrale, nella quale ambedue i termini, mantenendo la loro distinzione, si articolano in unità. In questo modo egli riconosce che esiste una relazione tra eros e il divino, in quanto l’amore comporta una promessa di infinito e definitività. Nello stesso tempo però indica che “l’eros ebbro ed indisciplinato non è ascesa, estasi verso il Divino, ma caduta, degradazione dell’uomo (n. 4).

Per portare a compimento la sua promessa l’eros ha bisogno di “necessarie purificazioni e maturazioni, che passano anche attraverso la strada della rinuncia” che “non è rifiuto dell’eros, non è il suo avvelenamento, ma la sua guarigione in vista della sua vera grandezza (n. 5). Seguendo il modello del Cantico dei Cantici, l’enciclica spiega in che modo l’eros si purifica e matura quando, decentrandosi, non mira soltanto ai propri desideri, ma raggiunge la scoperta dell’altro e si trasforma in preoccupazione, in cura, nella ricerca del bene dell’amato. Così l’amore appare come estasi, non come la follia della passione erotica, ma come “esodo permanente dall’io chiuso in se stesso verso la sua liberazione nel dono di sé, e proprio così verso il ritrovamento di sé, anzi verso la scoperta di Dio” (n. 6).

Da qui la risposta del Papa: “In realtà eros e agape – amore ascendente e amore discendente – non si lasciano mai separare completamente l’uno dall’altro”. Entrambi sono necessari uno all’altro. Perché se non matura in agape “l’eros decade e perde anche la sua stessa natura”. Però, se nel nome della spiritualità, l’agape si separa dall’eros “l’essenza del cristianesimo risulterebbe disarticolata dalle fondamentali relazioni vitali dell’esistere umano”. Anche l’agape ha bisogno dell’eros, perché “non può sempre soltanto donare, deve anche ricevere” (n. 7).

Così il Papa giunge alle prime conclusioni: “l’amore è un’unica realtà, seppur con diverse dimensioni”. L’amore cristiano non costituisce un mondo parallelo all’amore umano, ma “accetta tutto l’uomo intervenendo nella sua ricerca di amore per purificarla, dischiudendogli al contempo nuove dimensioni”. E indica che se queste due dimensioni si separano completamente “si profila una caricatura o in ogni caso una forma riduttiva dell’amore” (n. 8). 

L’unità dell’amore in Gesù 

La prima novità della fede biblica consiste nel fatto che Dio, l’Unico, il Creatore “ama l’uomo… personalmente”. Con un linguaggio nuovo il Papa applica a Dio le stesse caratteristiche dell’amore umano, che quindi è eros e agape. È eros, passione di amore, e lo afferma riferendosi ai profeti Osea ed Ezechiele “che hanno descritto questa passione di Dio per il suo popolo con ardite immagini erotiche” (n. 9).

Nello stesso tempo però è agape, perché “viene donato del tutto gratuitamente, senza alcun merito precedente, ma anche perché è amore che perdona”. Così “l’eros è nobilitato al massimo, ma contemporaneamente così purificato da fondersi con l’agape” (n. 10).

La seconda novità si trova nell’immagine dell’uomo: il racconto della creazione di Adamo ed Eva ci fa comprendere che “l’eros è come radicato nella natura stessa dell’uomo” (n. 11) e proietta l’uomo verso il matrimonio monogamico.

In Gesù ciò che era stato anticipato nell’AT trova la sua pienezza. Sia come eros sia come agape. La croce di Gesù costituisce la massima espressione dell’amore, essendo contemporaneamente follia della passione d’amore e dono di sé assoluto: “partendo da lì deve ora definirsi che cosa sia l’amore” (n. 12).

Attraverso l’Eucaristia “veniamo coinvolti nella dinamica della sua donazione” (n. 13) e così si compie attraverso la mistica del Sacramento un’unione tra l’uomo e Dio che nessuno avrebbe potuto sognare. Essa, poiché coinvolge anche i fratelli che si comunicano, è anche unione con i fratelli. Nell’Eucaristia, “amore per Dio e amore per il prossimo sono ora veramente uniti” (n. 14). Per questo viene chiamata agape, perché “in essa l’agape di Dio viene a noi corporalmente per continuare il suo operare in noi e attraverso di noi” (n. 14). Solo dall’Eucaristia si comprende il messaggio di Gesù sull’amore che “può essere comandato perché prima è donato” (n. 14).

Tutto il messaggio di Gesù, come ci viene presentato nella parabola del samaritano o nel giudizio finale, va nella stessa direzione: “amore di Dio e amore del prossimo si fondono insieme: nel più piccolo incontriamo Gesù stesso e in Gesù incontriamo Dio” (n. 15). 

Amore e sentimento 

L’unità tra i due amori permette di trovare la risposta a due tipiche obiezioni contro l’amore cristiano: è possibile amare un Dio che non vediamo? come ci si può comandare di amare se l’amore è un sentimento?

“Chi… non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede” (1 Gv 4, 20). Questo testo avverte che la vita per amare Dio è il fratello e che “chiudere gli occhi di fronte al prossimo rende ciechi anche di fronte a Dio” (n. 16).

In realtà, il Dio invisibile si è fatto visibile in Gesù e, attraverso la risurrezione, non rimane assente, ma “sempre di nuovo ci viene incontro attraverso uomini nei quali Egli traspare; attraverso la sua Parola, nei Sacramenti, specialmente nell’Eucaristia. Nella liturgia della Chiesa, nella sua preghiera, nella comunità viva dei credenti, noi sperimentiamo l’amore di Dio, percepiamo la sua presenza e impariamo in questo modo anche a riconoscerla nel nostro quotidiano. Egli per primo ci ha amati e continua ad amarci per primo; per questo anche noi possiamo rispondere con l’amore” (n. 17).

In questo incontro con Dio e con i fratelli si fa evidente che l’amore non è soltanto un sentimento. Il sentimento “può essere una meravigliosa scintilla iniziale, ma non è la totalità dell’amore” (n. 17). La maturità dell’amore, che rimane comunque un processo dinamico che mai si conclude, si manifesta quando l’amore prende tutta la persona, intelligenza e volontà: “Il riconoscimento del Dio vivente è una via verso l’amore, e il sì della nostra volontà alla sua unisce intelletto, volontà e sentimento nell’atto totalizzante dell’amore” (n. 17).

Da questi presupposti emerge la figura biblica dell’amore al prossimo e la sua articolazione con l’amore di Dio: “io amo, in Dio e con Dio, anche la persona che non gradisco o neanche conosco” (n. 18). Soltanto a partire dall’incontro con Dio che mi ha amato per primo si apprende a guardare gli altri con gli occhi e i sentimenti di Gesù. Senza la relazione con Dio “non riesco a riconoscere in lui l’immagine divina” e se si ignorano i fratelli, cercando soltanto di compiere i doveri religiosi, “s’inaridisce anche il rapporto con Dio” (n. 18).

E ancora: “Solo il servizio al prossimo apre i miei occhi su quello che Dio fa per me e su come Egli mi ama” (n. 18). L’amore, quindi, non va inteso come un comandamento impossibile che s’impone dall’esterno, ma piuttosto come “un’esperienza dell’amore donata dall’interno, un amore che, per sua natura, deve essere ulteriormente partecipato ad altri” (n. 18). Amore di Dio e amore del prossimo sono inseparabili, sono un unico comandamento. 

Chiesa, comunità d’amore 

Nella seconda parta, il Papa presente una sintesi della dottrina tradizionale sul servizio della carità nella Chiesa. Avendo ricevuto il dono dello Spirito Santo, è Lui che muove ad amare i fratelli come Gesù li ha amati e trasforma il cuore della Chiesa affinché testimoni l’amore trinitario e il progetto di fare dell’umanità una sola famiglia (n. 19). Per questo il servizio della carità non è soltanto responsabilità di ogni fedele, ma anche dell’intera comunità ecclesiale.

Dall’inizio della Chiesa, con la creazione dei diaconi nel libro degli Atti, appare la preoccupazione di eliminare la povertà dalla comunità cristiana e di servire i bisognosi, esigenza che successivamente si organizzerà in forme giuridiche istituzionali come amore organizzato (cf. nn. 20-24).

Si arriva così a due conclusioni. In primo luogo, la carità ecclesiale non è un’opera assistenziale dalla quale si può prescindere: essa appartiene all’essenza della Chiesa, come l’annuncio della Parola e la celebrazione dei Sacramenti, “compiti che si presuppongono a vicenda e non possono essere separati” (n. 25). In secondo luogo, nella famiglia di Dio “non deve esserci nessuno che soffra per mancanza del necessario” (n. 25), anche se l’universalità dell’amore supera le frontiere ecclesiali e si dirige a tutti i bisognosi, membro o no della Chiesa. 

Giustizia e Carità 

Il Papa poi dedica i numeri 26-30 alla relazione tra Giustizia e Carità, rispondendo all’antico dibattito, se cioè la carità si opponga alla giustizia in quanto attenuerebbe le conseguenze delle situazioni ingiuste e tenderebbe a mantenere lo statu quo.

In riferimento alla Dottrina Sociale della Chiesa, come contributo specifico della fede cristiana al problema della giustizia, l’enciclica delimita le competenze dello Stato (legittima autonomia dell’ordine politico che cerca la giustizia) e della Chiesa che “non può e non deve prendere nelle sue mani la battaglia politica per realizzare la società più giusta possibile” (n. 28), anche se può e deve aiutare la ragione a discernere le esigenze del bene comune.

Tuttavia, viene ricordato che l’amore sarà sempre necessario, anche nella società più giusta, e che lo Stato non può pretendere di monopolizzare gli aiuti a coloro che soffrono, ma “riconosca e sostenga, nella linea del principio di sussidiarietà, le iniziative che sorgono dalle diverse forze sociali e uniscono spontaneità e vicinanza agli uomini bisognosi di aiuto” (n. 28).

E qui viene fatta una distinzione. L’impegno politico di creare strutture giuste e di orientare la società verso la giustizia non è la missione della comunità ecclesiale, ma dei fedeli laici sotto la loro responsabilità personale. Le organizzazioni di carità, invece, sono un’opera propria della Chiesa come comunità, opera irrinunciabile, nella quale la comunità ecclesiale è il soggetto responsabile.

Il Papa poi si sofferma nell’analisi delle condizioni attuali del problema sociale e si rallegra per la nascita di tante iniziative di servizio ai bisognosi, dell’impegno di tanti volontari, e riafferma esplicitamente l’intenzione della Chiesa di collaborare con queste iniziative “per il rispetto dei diritti e dei bisogni di tutti, specie dei poveri, degli umiliati e degli indifesi” (n. 30). 

La carità ecclesiale 

Proseguendo la sua enciclica, il Papa stabilisce alcuni criteri per l’esercizio della carità ecclesiale. Bisogna rispondere alla necessità immediata con professionalità e anche con il cuore. Per entrambe queste dimensioni si richiede una formazione adeguata.

L’attività della carità ecclesiale deve essere indipendente da partiti e ideologie. Non deve essere un mezzo di proselitismo religioso: “Chi esercita la carità in nome della Chiesa non cercherà mai di imporre agli altri la fede della Chiesa” (n. 31). Non si tratta di lasciare Dio da parte, ma di fare in modo che testimone di Dio sia l’amore disinteressato e gratuito.

Gli ultimi numeri dell’enciclica (32-39) trattano dei responsabili dell’azione caritativa della Chiesa: in primo luogo i vescovi, essendo un impegno intrinseco della Chiesa; i collaboratori, radicati sempre nell’amore di Cristo, perché di Lui è espressione questa attività; la cooperazione con altre organizzazioni, sempre rispettando il profilo proprio della carità cristiana.

L’inno alla carità di san Paolo (1 Cor 13) “deve essere la Magna Carta dell’intero servizio ecclesiale” (n. 34): solo così il dono non umilierà l’altro, perché nella carità è la persona stessa che si dà e così si eviteranno posizioni di superiorità, tentazioni di scoraggiamento o di rassegnazione di fronte ad un impegno così grande.

Infine il Papa riafferma “l’importanza della preghiera di fronte all’attivismo e all’incombente secolarismo di molti cristiani impegnati nel lavoro caritativo” (n. 37). Soltanto unendosi al grido di Gesù in croce “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” (Mt 27, 46) si può affrontare la sfida della miseria, e il mistero della sua permissione da parte di Dio, senza cadere nella tentazione di giudicare Dio. Come per Gesù, quel grido è la forma estrema per affermare la nostra fede nell’amore di Dio, vivendo la carità che si unisce alla fede e alla speranza e si traduce in pazienza e umiltà.

L’enciclica termina con il ricordo dei santi e delle sante che hanno dato la vita per i bisognosi, offrendosi loro e servendoli nelle forme più diverse, e con l’invocazione della Vergine Maria, modello dell’accoglienza di Dio, modello di fede e di carità, alla quale raccomanda con una preghiera finale il servizio di carità della Chiesa (cf. nn. 40-42).

Per concludere, sono sufficienti queste parole dello stesso Benedetto XVI: “Vivere l’amore e in questo modo far entrare la luce di Dio nel mondo, ecco ciò a cui vorrei invitare con la presente Enciclica” (n. 39).

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