Vivere la città
Il nostro colloquio avviene durante una splendida giornata d’agosto in uno dei luoghi più affascinanti del Carso triestino, quel Monte Grisa che domina Trieste e il suo golfo con l’imponente tempio dedicato a Maria Regina immerso nel verde cupo dei pini. Silvano Magnelli, triestino per nascita ma di origini calabresi, per la passione profusa in campo culturale, sociale, politico ed ecclesiale sembra identificarsi con vita, problemi e aspettative di questa città, e quasi esprimerne l’anima. A Trieste hai insegnato per tanti anni… Trentacinque per l’esattezza. Diritto, educazione civica, economia politica alle scuole superiori, dove ho fatto anche il preside per alcuni anni. Sono grato alle nuove generazioni che con la loro freschezza e insofferenza per tutto ciò che non è autentico, espressa magari sotto forma di ribellione o di domande impertinenti, mi hanno aiutato a capire in anticipo i cambiamenti in atto nel mondo. Il tuo impegno per Trieste non si è limitato però soltanto al campo dell’insegnamento. Uno dei grandi problemi di questa città, incrocio di popoli e culture che risente ancora di alcune tragedie della storia, era la dolorosa separazione tra italiani e sloveni. Quando nel ’92 è venuto Giovanni Paolo II in visita qui, alla messa davanti alla cattedrale di San Giusto ha pronunciato una frase che per me è stata di sprone: Trieste, sii patria del dialogo. Già quando ero insegnante, ho cercato di mettere in comunicazione gli studenti di una mia classe con quelli di un liceo sloveno, per un percorso comune di tipo culturale, umano. Successivamente è venuta la militanza politica: sono stato eletto al consiglio comunale e da assessore all’istruzione ho operato perché diminuissero le distanze tra i cittadini e le istituzioni. Da vicesindaco, tra le prime iniziative, ho partecipato al concerto di Capodanno nel teatro sloveno della città: agli inizi degli anni Novanta, un gesto di inedita presenza da parte di un rappresentante della amministrazione cittadina, che ha favorito il dialogo tra le due comunità. E per i giovani? Un’altra scelta è stata in effetti quella di favorire l’aggregazione dei giovani, coinvolgendo i gruppi e le associazioni giovanili che lavorano sul territorio. Allora era una novità, ma la cosa sta andando avanti: esistono così oggi a Trieste diversi luoghi di ritrovo pubblici gestiti dal comune, dove confluiscono i giovani. Questa attenzione alle nuove generazioni è un tema importante per una città come questa, un po’ troppo ripiegata sul proprio passato, che tende a una visione adultocentrica, conseguenza di un grande calo demografico (ma negli ultimi tre anni le nascite sono aumentate, grazie agli immigrati). Altri ambiti? Il mondo appunto degli immigrati, di cui si contano a Trieste circa 14 mila presenze. Dapprima abbiamo formato un Coordinamento associazioni e comunità degli immigrati a Trieste (Cacit); e dopo otto anni di questioni e di rimandi, alla fine del mio terzo mandato e mentre mi trovavo nella minoranza del consiglio, siamo riusciti a far approvare il progetto per una loro consulta comunale. Infine, tre anni fa, quando sono uscito dal circuito scolastico per pensionamento, ho ricevuto la nomina dalla regione quale presidente dell’Ente diritto allo studio universitario. In tale veste ho lavorato per favorire l’integrazione degli studenti universitari nella città, partendo da problemi concreti come gli affitti e i trasporti, troppo cari per le loro tasche, con una serie di interventi e di facilitazioni anche per gli acquisti e gli accessi alla cultura e lo sport. Perché tutto questo impegno? Ho cercato di impostare la mia vita sulla base del Vangelo, conosciuto prima attraverso Giovanni XXIII, e successivamente Chiara Lubich: l’uno e l’altra mi hanno indirizzato verso una vita da spendere nell’amore. Ma l’amore di Cristo non è un fatto teorico o spiritualistico, deve calare sulla terra nella vita delle persone, essere toccato con mano, sennò l’uomo di oggi non ci crede. Solo se ci si fa carico dei bisogni della società e si cerca di dare una risposta concreta alle sue domande, può nascere una civiltà diversa, la civiltà dell’amore. Questo è alla portata di chiunque, ma soprattutto è un dovere per chi ha un impegno di rappresentanza civile e politica. Certo – e ti parla uno che spesso ha accettato degli incarichi col timore di sbagliare, di andare incontro a grane pazzesche – la politica ti espone al pubblico giudizio. Per esempio, a causa della consulta degli immigrati, mi sono trovato un sacco di volte sulle pagine dei giornali in polemica con chi contestava questa scelta. E allo stato attuale? Giusto ieri è cessato il mio incarico quale presidente di questo ente regionale. Sarei un pensionato, ma sento di continuare a impegnarmi; il Cacit ha richiesto la mia consulenza riguardo al cammino di integrazione degli immigrati e ho già detto di sì. Ma potrei dedicarmi anche ad altre esperienze. A Trieste, ad esempio, c’è una cultura del ritrovo al caffè: ne esistono di storici come il Tommaseo, il San Marco, dove artisti, scrittori, attori, ma anche comuni cittadini vanno non soltanto a bere caffè o a fare brindisi, ma a scambiarsi la vita, le idee: è un modo di vivere la città, di coltivare anche relazioni inusuali al di là dei propri ambiti. E di apertura ha bisogno questa città che, a motivo dei suoi trascorsi storici, risente di un forte individualismo e guarda con diffidenza al diverso, al nuovo, anche se nello stesso tempo sente la spinta a rinnovarsi. Che aria tira tra movimenti e comunità ecclesiali? Ti rispondo con l’esperienza mia e di mia moglie Elena, entrambi impegnati nel dialogo in particolare nell’ambito cattolico, dove abbiamo costatato i passi avanti fatti grazie soprattutto alle manifestazioni tenutesi a Stoccarda sotto il titolo Insieme per l’Europa. Esse hanno incrementato, tra i movimenti ecclesiali, dei rapporti di amicizia, di fraternità, di condivisione a tutto vantaggio della città; e questo la Chiesa locale l’ha visto e l’apprezzato. In tal senso negli ultimi anni con la Comunità di Sant’Egidio, Rinnova- mento nello Spirito, Acli, Azione cattolica, Cursillos e Guide e Scout d’Europa abbiamo realizzato alcuni momenti significativi di collaborazione e di scambio. In questo tuo percorso sei stato solo o hai condiviso anche con altri? Intanto è stato fondamentale il sostegno di mia moglie. Non avrei intrapreso nulla senza che lei fosse stata d’accordo. Va detto anche che prima di me altri quattro appartenenti ai Focolari erano stati consiglieri comunali. Sono stati loro ad aprirmi la strada all’impegno civile e politico, l’ho vissuto a contatto con loro e successivamente, da eletto, con loro usciti dal circuito politico. Ancora oggi del resto l’esperienza continua con un altro consigliere comunale. Con l’apertura recente di una sezione triestina dell’Amu (Azione per un mondo unito), è partito un progetto per l’Africa con un contributo regionale per merito di un altro amico, Giampiero Viezzioli. Come presidente dell’ente lasciato ieri, ho fatto l’8 maggio scorso una delle esperienze più belle della mia vita: col concorso dell’Unicef, di Sant’Egidio, Acli, Caritas diocesana, Giovani per un mondo unito e di altri gruppi e associazioni, abbiamo convocato studenti africani, ma anche italiani e persone di altre etnie e nazionalità per una serata – l’Africa a Trieste – fatta guardando a quel continente dal lato degli africani e anche dal lato dei progetti che come italiani stiamo facendo per quel continente.! Inevitabile qualche delusione… È quando vedo che in certi ambienti cristiani si vive nello stallo e nella distanza dalle vicende umane. Dio si è incarnato, e se noi cristiani ci disincarniamo mancando di vera passione civile e umana, dimentichiamo la portata dell’amore divino. Qualche volta questa passione io la trovo molto più forte nei non credenti, tra i quali ho diversi amici. Certo che l’incarnazione costa critiche, sbagli (ne ho fatti anch’io, ovviamente, come è inevitabile che sia), incomprensioni… Costa, pe rò dona tantissimo, apre spazi inconsueti. Un bilancio di questi anni? Senza l’ideale dell’unità, che ho conosciuto nel ’68, questi quarant’anni non sarebbero stati gli stessi. In Chiara c’è il coraggio di amare, sicuramente partendo dal proprio prossimo, dalla propria Chiesa, però anche di guardare molto lontano, sennò diventa un amore di casta, non so come dire. E credo che sia arrivato il tempo di rompere tanti indugi, di uscire dal proprio particolare per incontrare anche chi è tanto diverso da te. Da cristiano, credo che non si possa vivere da estranei la propria città, senza impegnarsi per il suo futuro e senza viverne la storia passata con tutto il suo strascico di sofferenze e di contraddizioni.