Vivere dentro il problema
La spiritualità dell'unità si rivela un valido aiuto nell'affrontare le sfide educative del mondo di oggi. Dagli Stati Uniti
La serie di problemi che la scuola oggi si trova ad affrontare è ben nota: studenti poco motivati, genitori che sembrano non sostenerli, immagine negativa offerta dai media, insegnanti competenti che abbandonano per lo scoraggiamento e giovani che vengono disincentivati dall’intraprendere la carriera di docente. Non esiste una soluzione semplice a queste questioni: tuttavia possono costituire un’opportunità per agire in maniera costruttiva.
L’insegnamento ha due scopi fondamentali: aiutare la realizzazione della persona e fornirle le competenze necessarie per l’autosufficienza economica e sociale. Questi possono essere tradotti in due obiettivi: istruire il singolo e costruire la comunità. Per oltre sessant’anni la spiritualità dell’unità, propria del movimento dei Focolari, ha fornito un valido supporto in questo senso. Chi la vive vi ha trovato non tanto una risposta a questi problemi, quanto un modo di rapportarsi con le tensioni tra ciò che ci si aspetta dalla scuola e ciò che questa è realmente in grado di fare, concentrandosi non sulle “soluzioni” ma sulla vita di ogni giorno.
Se vogliamo educare il singolo e costruire la comunità allo stesso tempo, dobbiamo formare persone la cui identità non cambi con il mutare delle situazioni: quella che viene definita “identità morale”, perché nasce dalla convinzione che l’essere umano si realizza nella reciprocità. Studenti, genitori, insegnanti e dirigenti scolastici che vivono la spiritualità dell’unità vi hanno trovato la chiave per costruire questa reciprocità anche là dove non l’hanno trovata. Lo fanno attraverso la cosiddetta “arte di amare” evangelica, che vede la sua estensione nella “regola d’oro” comune a tutte le religioni “fai agli altri ciò che vorresti fosse fatto a te”. L’individuo fa dunque così il primo passo verso “gli altri”, in quanto nella comune dignità umana risiede la possibilità della reciprocità. L’“arte di amare” viene messa in pratica attraverso sei punti chiave, che anche i bambini vivono attraverso una sorta di gioco, il “cubo dell’amore”.
Un’insegnante di Baltimora comincia sempre la giornata facendo tirare il dado agli alunni, ed è rimasta colpita da come si aiutino l’un l’altro a mettere in pratica la “frase del giorno”, dalla loro volontà di fare pace dopo i litigi, o da frasi come «perché non chiedi scusa?» o «non è questo il modo di trattare un compagno». Ad un insegnante di educazione fisica è stato chiesto di utilizzare il cubo durante le sue lezioni, nonostante gli scetticismi di fronte al fatto che a volte lo scopo dello sport diventa vincere a tutti i costi. I risultati sono andati oltre le sue aspettative: «Durante una partita di calcio, un giocatore più piccolo degli altri è riuscito a dribblarli tutti e andare in rete – racconta –. Quando ho chiesto agli avversari perché l’avessero lasciato fare, uno dei ragazzi più forti ha risposto “Prof, anche lui deve pur fare goal!”».
Questa spiritualità ha inciso positivamente in scuole di ogni ordine e grado, e anche nelle università. Negli Stati Uniti vengono chiamate college, dal latino collegium, che significa “comunità” o “società”: ma la realtà dei fatti spesso non corrisponde a questo ideale. Alcuni docenti, tuttavia, hanno trovato il modo di andare oltre l’isolamento che deriva dalla competitività esasperata o dal considerare ogni settore disciplinare come un mondo a sé: un professore di matematica ha notato come gli incontri tra docenti siano così diventati più produttivi, superando i vecchi rancori e cooperando per il bene dell’intero ateneo.
Un ambiente educativo positivo può essere generato solo da un dialogo e relazioni autentiche: e sebbene anche i bambini possano farlo serve coraggio, perché andare verso l’altro – che può o meno ricambiare – richiede un atto di fiducia. A volte il tentativo fallisce e si rimane feriti, ma non fare il primo passo preclude ogni possibilità di relazione. Farlo, invece, apre tante possibilità quante le persone che incontriamo. In base alla nostra esperienza, possiamo dire che i rischi sono bassi, soprattutto alla luce dei benefici che ne sono derivati.
Dalla presentazione del libro Lo scopo più alto dell’educazione di Michael James, Thomas Masters and Amy Uelmen (New City Press 2010) alla University of Southern California. Con la collaborazione di Emilie Christy, traduzione di Chiara Andreola