Vittorio e le sedie volanti
Sedini disegnatore e/o filosofo? Giudicatelo voi da questa intervista.
Da anni sorridiamo alle sue filosofiche vignette sui sassi. Sappiamo tutto della sua infanzia grazie ai deliziosi racconti che ne hanno rivelato anche la vena letteraria. E forse, fuorviati dai rassicuranti disegni, ci siamo immaginati un Vittorio bonario, ameno, ricco di humour. Ma è proprio tutto qui il Sedini?
Eppure una spia di un lato insospettato del personaggio potevano avercela data le sue tavole per una originale Via Crucis da cui viene escluso il personaggio umano (ne abbiamo pure trattato su queste colonne).
Io per la verità, curiosando a casa sua e nello studio milanese, davanti ad alcuni suoi dipinti dove ricorre il motivo di una sedia in insolite situazioni (ce n’è perfino una che vola!), credo di aver colto un Vittorio diverso.
Riflettiamoci un po’: una sedia non è forse un oggetto fatto apposta per trovare riposo quando siamo stanchi? Se però qualche buontempone ce la sottrae mentre ci stiamo sedendo, mandandoci a gambe all’aria, noi rimaniamo spiazzati perché è venuto meno proprio un elemento di stabilità su cui facevamo affidamento.
Cosa intende allora il Sedini quando nei suoi paesaggi color pastello ci mostra una sedia che volteggia come un aerostato? Vuol essere il suo un omaggio a Chagall? Oppure è l’amichevole monito che le nostre sicurezze potrebbero essere prima o poi sconvolte, quasi un invito evangelico a vigilare? Meglio chiederlo a lui direttamente.
«Beh, quando io disegno, non è che penso primariamente ad un messaggio da dare, anche se è chiaro che ciascuno con i mezzi che ha esprime sempre quello che lui è.
«Per tornare alla sedia volante, io considero l’instabilità, la non sicurezza come la condizione migliore per poter essere vicino all’altro. Non a caso sulla mia carta da lettere ho disegnato una barchetta in balia di onde formate dalle lettere del mio nome e cognome, con dentro un omino che sono io. Dice proprio la mia realtà di uomo che vive nella precarietà. Paradossalmente, però, questa situazione mi permette di dare all’altro sicurezza: perché quando non si hanno certezze proprie da opporre, è allora che l’altro si sente libero di esprimersi.
«Ora la sedia – oggetto stabile ma al tempo stesso spostabile – mi piace proprio nel momento in cui… emigra da qualche altra parte: quasi un invito a seguirla, a muoversi verso un’altra possibilità».
Parlavi dell’incertezza della nostra condizione umana. Eppure i tuoi quadri sono sereni, non drammatici.
«È perché questa incertezza non è senza speranza, non è cupa. È una incertezza positiva, in quanto aiuta a mettersi in discussione e a togliersi certi attaccamenti a cose che ritenute fondamentali…».
Ci sono però in te delle certezze che riguardano i valori primari, no?
«Evidente. Solo che io non le chiamo certezze, ma speranze. Speranza non certo nel senso di “io speriamo che me la cavo”, come diceva quel ragazzino, ma nel senso proprio della virtù teologale».
Tornando al disegnino dove ci sei tu sballottato dalle onde, mi viene in mente un’altra barchetta: quella dei discepoli di Gesù sul lago di Genezareth. Lì però c’è lui che dorme ma, svegliatosi, placa le acque e la tempesta… Gesù è certezza per gli impauriti.
«Bellissimo! Non ci avevo pensato. Però i discepoli Gesù l’hanno svegliato, bisogna darsi da fare quando si è alle strette. C’è sempre questo gioco tra la fiducia assoluta in lui che ti salverà e il timore, forse, di non esserne degni».
Bravo, Vittorio! Queste riflessioni sono certo frutto d’esperienza. Cos’è che t’ha cambiato la vita, e quando?
«È una lunga storia. Verso il 1962-63 ero a Roma, sposato e già con due bambini. Ad affascinarmi è stato l’incontro con un cristianesimo vissuto, con un Dio incontrato nei fratelli. Una scoperta avvenuta tramite i Focolari e facilitata da una situazione di massima incertezza: avevo perso il lavoro, Mirella non stava bene ed era dalla mamma a Trieste assieme ai nostri figli.
«Un amico, Gianfranco, mi aveva invitato a conoscere delle persone: era regista televisivo ed io, da disoccupato, speravo in un aiuto per trovare lavoro. L’incontro è avvenuto un sabato nel focolare di via Saliceto: dopo avermi presentato lì ad un certo Giannino, con una scusa Gianfranco è sparito e io sono rimasto con questo Giannino per un paio d’ore.
«Il messaggio dell’unità da lui recepito mi ha incantato, ma era passato più che altro attraverso la testa; solo più tardi è arrivato al cuore e – direbbe Chiara Lubich – nei muscoli, nel senso che per amarlo sul serio, il prossimo, per servirlo, devi darti da fare nel concreto.
«È stato il sabato successivo. Quella volta in via Saliceto ho ascoltato Giulio Marchesi parlare di Gesù quando lava i piedi agli apostoli. Grazie a quell’atmosfera particolare che segnala la sua presenza (come ho realizzato più tardi), ho avuto l’intuizione di aver trovato la mia strada.
«Nell’estate del ’63, durante una Mariapoli in Piemonte ad Ala di Stura, mi è capitato di riflettere a lungo su un fatto. Siccome sono uomo d’immagini, mi sono immaginato una bilancia. Su un piatto c’erano la famiglia, la carriera, tutte le cose belle che fanno sentire un uomo realizzato, mentre sull’altro non c’era niente. Vuoto! Ecco, mi son detto, forse lì ci va messo Dio. E ho scelto lui. Ecco come sono diventato un focolarino, sbatacchiato qua e là dalle onde» (ride).
Per tornare alle sedie, in quale fase sei del tuo percorso artistico? Sai, si parla del Picasso blu, di quello rosa…
«Piano, non facciamo paragoni!, se no ti rispondo come una volta Picasso quando gli chiesero cosa pensava di Dalì: “Beh, non parliamo dei minori!”.
«Per essere seri, vorrei richiamarmi alla Via Crucis realizzata di recente, che mi è capitata addosso quasi da fuori (o dall’alto?). Ed è bello averla condivisa con la mia collega illustratrice Franca, che non si professa propriamente atea, ma si chiede perché mai un dio dovrebbe occuparsi dei suoi affari. Ebbene, mentre ero intento alla Via Crucis, Franca ha seguito i progressi del mio lavoro, attenta a che non ci mettessi niente di superfluo, portandomi ad una poetica assolutamente scarna. Ecco l’importanza dell’altro che collabora con te, pur non mettendoci neanche un segno di matita».
Hai qualche altro progetto in mente?
«Un amico mi ha proposto di illustrare il Cantico dei cantici. L’idea mi affascina, ma mi fa tremare, perché non trovo lì un simbolo altrettanto forte e universale come la croce. Una cosa è certa: più che fare dei lavori che mi realizzano, sono interessato a produrre qualcosa dove ci sia dentro l’altro, non solo come fruitore dell’opera, ma l’altro che – per il rapporto stabilito insieme – ne diventa coautore, magari non sapendolo. E da questa comunione non va escluso chi guarda perché solo lui può completare gli stimoli che l’opera offre. Quindi adesso non so cosa farò, se riprenderò il tema delle sedie o farò volare qualche altra cosa!».