Vittime o carnefici?
Ma di che Dio parliamo? Si uccide molto, troppo, nel nome di Dio. Nel marzo del 2003 ero alle Vernal Falls, nel parco di Yosemite, alla radio ascoltammo il discorso di George W. Bush che annunciava l’inizio della seconda guerra d’Iraq della dinastia Bush: «Dio è con noi», disse. E poco dopo, scendendo, ascoltammo la replica del dittatore iracheno, Saddam Hussein, che concluse il suo messaggio alla nazione con le stesse parole: «Dio è con noi». Né l’arabo né l’inglese usato dai due avversari fu coniugato con forme simili al nostro congiuntivo, o con l’ottativo greco. L’indicativo. Dio è con noi.
Sappiamo tutti come andò a finire, sappiamo tutti che la guerra è ancora in corso, sappiamo tutti che altre guerre l’hanno preceduta, sappiamo pure che altre l’hanno seguita. Sappiamo che c’è anche una guerra asimmetrica e subdola che è in corso, quella del terrorismo di matrice islamista (attenti a non definirla islamica), quella di al-Qaeda e del Daesh, che viene ancor più giustificata con motivi pseudo-teologici, «in nome di Dio», appunto. Ma che cosa ha a che spartire il Signore Iddio con la teoria degli “Stati canaglia” elaborata dall’American Enterprise Institut diretta allora da Paul Wolfowitz (che, ironia della sorte, si accompagnò più tardi con una musulmana)? E che cosa ha da spartire con Allah il clemente e misericordioso Mohamed Lahouaiej Bouhlel, l’attentatore di Nizza, torbido, drogato e alcolizzato, refrattario a lungo ad ogni preghiera nelle moschee della Provenza? Saddam Hussein per decenni si era fatto paladino della laicità baathista all’irachena, ed ora invocava forse per disperazione il nome di Dio? Troppa gente tira per la giacchetta il Signore Iddio che sta nei cieli, ma che si vorrebbe scendesse su questa Terra per appoggiare la propria causa, solo la propria ovviamente. Questa è semplicemente “religione della guerra” e non “guerra di religione”.
Scorciatoie mediatiche.Il libro dell’amico, collega e correligionario (cosa non secondaria) Giulio Albanese mi sembra che sia la più chiara denuncia dell’assurdità di guerre o di atti di violenza terroristica che si richiamano a Dio, atti tipici dell’alba del terzo millennio, di questa ormai ammessa «Terza guerra mondiale a pezzi», che fece storcere il naso a non pochi quando Francesco ne parlò a Redipuglia nel settembre 2014. Nel corso di tante conversazioni private e pubbliche, abbiamo a più riprese cercato di investigare dalle parti di queste usurpazioni della vera religione, in particolare delle cosiddette “persecuzioni”, convinti da una parte che la nostra fede cristiana abbia nel suo “bagaglio” la possibilità di essere perseguitati nel nome di quel Gesù che fu a sua volta perseguitato da tanta, troppa gente, e dall’altra che spesso e volentieri si considerino “persecuzioni in nome di Dio” delle semplici questioni politiche (il caso del Daesh è tipico), o etniche (esemplare il caso nigeriano trattato con dovizia di particolari da Giulio).
In questo senso è più che errato, a meno di voler essere irrazionali, voler guardare all’attuale scontro tra certa parte del mondo mediorientale e africano e certa parte del mondo occidentale, con propaggini fino in Australia, che non è certo ad Occidente dell’Europa, come a uno scontro di civiltà e tantomeno di religione. Dico certa parte di questo o quel mondo, perché una delle scorciatoie più usate da noi giornalisti e dai politici per giustificare lo scontro di civiltà è la divisione tra mondo arabo-islamico e mondo occidentale-cristiano: come cedere a certe banalizzazioni, quando si sa che tanti cristiani fanno parte integrante dei popoli mediorientali, e quando si sa che il cosiddetto mondo occidentale è tutto tranne che cristiano, oramai?
Sono e siamo assai refrattari a parlare di persecuzioni dei cristiani (che cristiani?) da parte dei musulmani (quali musulmani?), anche perché le due religioni (con qualche differenza rispetto alla terza religione del libro, l’ebraismo) sono credo “plurali”, nel senso che in sé hanno il germe dell’inculturazione, dell’integrarsi fino quasi a scomparire nella terra e nel popolo nel quale si giunge a vivere. Ho viaggiato in lungo e in largo gran parte dei Paesi a maggioranza musulmana nel mondo, incontrando immancabilmente le minoranze cristiane (ma non solo) presenti sul territorio, che fossero gli sparuti gruppi del Bahrein (dove la più perseguitata è però la minoranza sciita) o dell’Algeria (dove i berberi sono nel mirino dei sunniti come e più dei cristiani), o quelli ben più consistenti del Pakistan (che dire degli ahmadi, colpiti cento volte di più dalla legge della blasfemia più dei cristiani?) e dell’Egitto (dove i copti, in fondo, hanno avuto meno problemi degli stessi palestinesi) o del Myanmar (dove dei buddhisti perseguitano dei musulmani, i rohynga, come spiega Albanese nel suo libro).
Ebbene, dai cristiani del luogo, dai sacerdoti come dai laici, assai raramente ho sentito parlare di persecuzioni in senso stretto. Certo, vivevano talvolta o anche spesso nel timore della legge contraria a ogni conversione, come ad esempio nella patria degli Ayatollah, o nella paura fisica delle schegge impazzite delle guerre, come ad esempio nell’Iraq post-bellico. Amiamo parlare di persecuzione molto più in questa parte del mondo, quasi per giustificare un nostro atteggiamento anti-islamico, anti-immigrazione, anti-diversi-da-noi. Amiamo parlare, perché in realtà dovremmo muoverci di più e agire conseguentemente alla nostra pretesa difesa dei valori cristiani. È cristiano bombardare i libici? È cristiano bombardare i siriani? È cristiano trafficare in armi e in mercenari, o anche in servizi di intelligence? Chi è vittima e chi è carnefice? Non nascondiamoci dietro il dito. Ciò non vuol dire che non esistano persecuzioni, tutt’altro. Esistono, ma il più delle volte avvengono non per motivi di fede ma esclusivamente politici.
La sfida culturale.Per concludere, vorrei sottolineare come la sfida posta dal tema delle persecuzioni sia essenzialmente culturale. Se nella nostra testa ci creiamo il nemico islamico, evidentemente perdiamo quella lucidità che ci fa vedere le cose in una luce oggettiva, e giustifichiamo la nostra lotta contro il mondo islamico. E scriviamo sui nostri giornali fandonie da uomini e donne senza cervello, associando al terrorismo un miliardo e mezzo di musulmani! Dobbiamo mantenerci lucidi e capire che nel mondo globalizzato (dove tutto pare uguale) e localizzato (dove tutto pare diverso) dobbiamo abituarci alla convivenza, al meticciato (come direbbero quelli di Oasis), all’adozione reciproca (come direbbero a Sant’Egidio), alla fraternità universale condivisa (come direbbero i focolarini). Ho citato queste tre organizzazioni cattoliche perché sono le più impegnate nel dialogo interculturale e interreligioso, con iniziative spesso geniali ed efficaci. Se i profughi, in questo preciso momento, sono 65 milioni, qualcosa vorrà pur dire, e non dobbiamo guardare al fenomeno migratorio solo come a una minaccia ed erigere muri (sulle ceneri dell’Unione europea ognuno si fa i suoi muretti), ma anche come a un segno dei tempi.
Sì, un segno dei tempi. I tempi che non possono più ammettere sfruttamenti e infingimenti, ma necessitano di richiami potenti alla giustizia e alla equa distribuzione dei beni, alla lotta contro tutte le corruzioni e tutti gli sfruttamenti, alla fine del colonialismo che sopravvive e che anzi prospera in campo economico (Cina docet) molto più di quanto non avvenisse quando l’Algeria era territorio francese, quando la Nigeria era britannica, anche quando l’Etiopia era italiana. La via del futuro è la via della compartecipazione, del mondo non bipolare, nemmeno multipolare, ma dell’uno e del molteplice, dell’unità e della distinzione, in cui ogni popolo possa vivere nella pace, nella sua Terra, nella sua libertà.