Vite in gioco contro l’azzardo
Il primo appuntamento è per le 15.45, nella sala conferenze della Casa Diritta, in via Garibaldi, in centro storico, ad Arezzo. Ci sono i rappresentanti dei cinque SerT della provincia, il Dipartimento dipendenze dell’Azienda Usl Toscana Sud Est, il Movimento SlotMob e i volontari dell’Associazione “Mirimettoingioco”, un gruppo di autoaiuto per ex giocatori e le loro famiglie. Tutti animatori di “Reti in gioco”, un pomeriggio di confronto tra servizi pubblici e territorio, in rete, per combattere la piaga dell’azzardo. Il progetto è promosso dal Gdl GAND (Gruppo di Lavoro Inter istituzionale sul gioco d’azzardo e le nuove dipendenze), la rete di istituzioni che a livello provinciale lavora dal 2005 per promuovere azioni condivise di studio e di sensibilizzazione sul gioco d’azzardo e le altre dipendenze da comportamento.
«Il mio rapporto con il gioco va avanti da venticinque anni. Venti nel pieno del problema e cinque, cercando di uscirne. I primi venti sono stati difficili, brutti, pieni di bugie, di nascondimento, di quanto peggio si può immaginare. Sono stati soprattutto ovattati. Perché finché uno è dentro la dipendenza, non si accorge del male che fa a se stesso e intorno a sé». Gianni Bacci, 46 anni, ex giocatore e presidente dell’associazione di volontariato “Mirimettoingioco”, confessa che non è mai facile condividere in pubblico la propria storia («Le labbra si seccano sempre…»), tuttavia è necessario, per dare speranza e mostrare che dalla dipendenza è possibile uscire: «Qualche giorno fa, al gruppo, cercavamo un’immagine per descrivere la sensazione che si prova mentre si è giocatori, io paragonerei questi miei 20 anni ad una pistola con il silenziatore che spara, può uccidere ma non si sente. Il giocatore non sa che può far del male. Ha bisogno del suo gratta e vinci per rimanere nella sua ovatta, nel suo silenziatore». Gianni ammette che per lui la svolta decisiva è avvenuta quando una persona l’ha spinto con insistenza ad entrare al Sert: «Ho fatto un percorso personale con un terapeuta, e poi il gruppo. È stato durante questi anni che ho recuperato la sensibilità, che ho compreso pienamente quello che avevo perso. Ora sento anche il rammarico, prima no. Quello che mi fa andare avanti è la voglia di mettere a disposizione quest’esperienza di vita vissuta, il confrontarmi con le persone per far vedere che si può uscire, che ci si può fare».
Emanuela, invece, racconta una storia diversa, fatta di gioco e di alcool perché, spiega, ogni giocatore ha uno stile, gioca in maniera diversa. «Tutto ha avuto inizio con l’incontro con una donna ad un matrimonio, un caffè insieme, due chiacchiere al bar e poi… mi avvicino ad una slot, metto un euro, poi due, poi dieci. E così, passano i giorni, non più caffè ma negroni, e poi ancora negroni. Intorno a me il vuoto». Emanuela è una bella signora dai capelli rossi, che legge la sua storia da una pagina che le trema tra le mani: «Lavoro, casa, bar e alcool. Continuo a spendere nelle slot, mi dico, tanto domani vinco. Finché una sera, ubriaca torno a casa. Mia figlia mi aspettava. Mi dice solo due parole: “mi fai schifo”». Sono parole dure, dentro di sé Emanuela vorrebbe smettere, ma non ha la chiave per uscire da quel tunnel anzi, peggiora le cose affidandosi ad uno strozzino per pagare i suoi debiti. Finché il marito la trascina al SerT. Emanuela sembra decisa a smettere, viene inserita nel gruppo di Mirimettoingioco: «Faccio nuove amicizie, all’inizio sembra che tutto vada bene. Ma ecco che cado di nuovo nella trappola. Riesco in qualche modo a sopravvivere… Poi, mio marito mi dà l’ultimatum: mi copre tutti i debiti, ma a condizione di restituirgli il tutto e di farmi curare».
Oggi, Emanuela è fuori da quell’incubo, ma ogni tanto le torna una domanda: «Sarò ricordata per quello che ero, oppure come Emanuela?». La risposta arriva da dentro, come un sollievo: «Dò prova tutti i giorni che io sono, semplicemente Emanuela».
Sono tante altre le storie che si intrecciano sul palco e abbracciano la sala: quella di Salah, che paragona la dipendenza ad un vulcano in cui è facile scendere ma da cui è difficilissimo risalire, uno stato in cui si perde tutto, anche la propria identità; oppure quella di Isabella, figlia di un ex giocatore, che con le sue due sorelle e la mamma hanno condiviso come famiglia il percorso del padre per uscire dall’azzardo, sostenendolo e accompagnandolo ad ogni incontro.
Poi, tutte queste storie escono dalla sala, arrivano in piazza e si intrecciano con le vite di chi, nel proprio percorso, ha scelto di non ricavare profitti dal gioco d’azzardo, come Andrea e Francesca, i proprietari del “Bar di Piazza”, in piazza Giotto: «Quando abbiamo acquistato il bar, vi abbiamo trovato dentro le slot. Noi abbiamo detto subito che non le volevamo ma c’erano problemi contrattuali da risolvere, è stata dura, ad un certo punto li ho quasi minacciati: se non le portavano via prima dell’inaugurazione del bar, le avremmo buttate per strada!» Andrea spiega che i gestori delle macchine credevano che lui volesse rivolgersi ad altre società concorrenti: «Ma quando ho chiarito che per me era una scelta etica, non ci sono stati più problemi. Non volevo le slot nel mio locale semplicemente perché avevo visto rovinarsi troppi amici giocando e non volevo che il mio bar diventasse un luogo di rovina per altri».
E così, il Bar di Piazza di Arezzo è il 215° bar liberato dalle slotmachine. Il cammino continua, quel che è certo, dopo una giornata così, è che la piaga dell’azzardo si sconfigge lavorando in rete.