Vita, stupore, filosofia

I filosofi del passato sono maestri soprattutto se e quando il loro pensiero si esprime nel loro essere.
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Il riflettere in profondità sul rapporto fra filosofia e storia della filosofia ci conduce ad una scoperta: l’oggettività della verità. La verità era nei filosofi, così come lo è in me, e non tanto perché mi è stata trasmessa. Ciò si palesa non solo nel fatto che ritrovo, in certo modo, i filosofi in me ancor prima che li conosca, ma anche nel modo stesso in cui essi mi trasmettono la verità da loro raggiunta. Richiamo un esempio, a mio avviso particolarmente significativo.

Aristotele è senz’altro il pensatore che ha maggiormente influito su tutto il pensiero occidentale. Eppure tutte le sue opere pubblicate furono distrutte. Rimasero solo gli appunti dei suoi discorsi, che furono raccolti in volumi solo nel primo secolo prima di Cristo, quindi a lunga distanza dalla sua morte, e sono questi che, a tutt’oggi, formano l’oggetto del nostro studio. Questa semplice notazione storiografica ci rivela qualcosa di estremamente importante, cioè che la trasmissione della verità può prescindere da una qualsiasi determinata forma -in tal caso la conoscenza degli scritti pubblicati di un filosofo -, che pure posso ritenere necessaria a tale scopo. Infatti, la verità scoperta da Aristotele, e solo alcuni secoli più tardi messa per iscritto e come tale consegnata all’umanità, in realtà era già parte del patrimonio di pensiero dell’umanità. Quegli scritti, la cui autenticità è stata storicamente accertata, la ridanno, per così dire, ad essa, facendone un ineludibile punto di riferimento per tutta la successiva riflessione filosofica.

Al tempo stesso, ciò rivela anche la vera grandezza di Aristotele, insieme alla ragione più profonda della perenne vitalità del suo pensiero, poiché ci manifesta in modo inequivocabile che, in lui, il pensare era essere, era esistere. Aristotele è vero proprio per questo, perché ha affidato la verità scoperta non ai suoi scritti né ai suoi discorsi, ma alla sua stessa esistenza. Potrei affermare lo stesso di altri filosofi che, anche in tempi a noi più recenti, hanno vissuto vicende analoghe. Sono loro a confermarmi che è la loro esistenza pensata la verità che mi raggiunge, arrivando a me attraverso l’esistenza dell’umanità e del cosmo intero. Ed è verità in quanto è adesione del concetto all’essere, è l’essere che pensa e che, come tale, è capace di entrare nell’essere dell’altro.

Sorge, a questo punto, un’altra domanda. Se tutti i filosofi, che sono giunti a me, hanno risposto alle domande che mi ponevo, perché, ad un dato momento, nasce in me lo stupore dinanzi al mio esistere? È che essi mi hanno condotto fino a possedere tutta la loro verità, ma poi lì mi hanno lasciato. Allora, quella verità, che sono io, genera in me stupore e si fa domanda, interpellandomi su una ulteriorità non ancora da me posseduta. Scopro così di essere come un frutto, un figlio loro, che nasce – come anch’essi, a loro volta, sono nati – dallo stupore di ciò che sono io oggi, avendo però in me tutto ciò che ero ieri. Occorre perciò – ripeto nuovamente – conoscere i filosofi per conoscersi e conoscere in profondità la relazione che mi lega a loro. E, poiché io di loro conosco ciò che essi mi hanno dato – quel tanto di esistente-pensante o di esistenza pensata o di pensiero esistente, che era l’adesione loro al vero, all’essere, al reale -, allora io da loro imparerò non l’artificio logico, non il freddo raziocinio, ma la conformità del pensare al vivere. Imparerò cioè che il mio pensare ha valore tanto in quanto io sono, tanto in quanto la mia domanda è me e la mia risposta è me. Questo è ciò che io donerò all’umanità, così come lo hanno donato i filosofi che mi hanno preceduto. E sarà solo quel poco o molto di verità che riuscirò ad esprimere della mia esistenza, pur tra tante parole inutili e caduche, che rimarrà; e rimarrà anche se, per assurdo – dal momento che vivo comunque sempre in comunione -, non lo donerò a nessuno.

L’autentico filosofare si manifesta, dunque, percorso da una profonda eticità, nel senso che implica la coerenza tra il pensare e l’essere, la continua adesione vitale a ciò che si è. Quando, da parte di certi filosofi, tale coerenza è stata disattesa, essi hanno sperimentato in sé stessi un intimo contrasto, che, in alcuni, ha generato una vera catarsi interiore, in altri ha precluso il progredire stesso nella verità. Nondimeno, l’esistenza dell’autentico filosofo è tale che lo fa essere, anche suo malgrado, espressione del vero insito nel suo pensiero, tanta è, appunto, la forza di identificazione tra il pensare e l’esistere. È per questo che i santi sono i geni più grandi. Essi hanno raggiunto l’adesione perfetta del pensiero alla vita, e ciò fa loro imprimere l’impulso più forte al progresso anche intellettuale dell’umanità. Quindi, anche se a loro non sarà dato di formulare una dottrina – altri, che si porranno nella loro scia, potranno farlo -, è comunque dato loro di esprimere l’essere, la sostanza di un pensiero capace di portare avanti l’umanità.

Ciò appare limpidamente, ad esempio, in san Francesco. È lui, infatti, che determina un rinnovamento nel pensiero teologico del suo tempo, sebbene siano san Bonaventura, Duns Scoto e l’intera scuola francescana a dare forma dottrinale alla sua vita che era il suo pensiero. Se, allora, la scuola francescana è la vita di Francesco tanto in quanto questa esprime delle verità, nell’ipotesi in cui la scuola francescana non esprimesse più la vita, che era il pensare vissuto, implicito, di Francesco, neanch’essa sarebbe più vita.

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