Vita, morte e rinascita
Genova. Un’assolata domenica pomeriggio. È il 3 marzo del 1980, il ventunenne Giorgio Tacchino sta accompagnando al lavoro la sua ragazza, insieme a due amici, un cane e la chitarra elettrica. Le fa una sorpresa. Un anello per il suo compleanno. Commette l’imprudenza di donarglielo in macchina e la ragazza l’abbraccia dimenticandosi per l’emozione che Giorgio era alla guida. Lo schianto contro il palo è inevitabile. Giorgio entra in coma, la ragazza muore. I due amici sono illesi. Il cane vaga smarrito per strada.
Il coma trascina nell’ignoto Giorgio per lunghi mesi. La vita cambia in un istante. Elena ora diventa solo mamma e Luisito solo papà. Entrambi lasciano il lavoro per seguire Giorgio. In quegli anni la scienza medica non sa quasi nulla. I medici lo danno per morto, non esistono protocolli, né reparti specializzati. Non è possibile neanche visitarlo, né toccarlo, parlargli. Lo seguono a distanza da un monitor solo per poco tempo e una volta al giorno. Un calvario che comincia.
«Eppure, tutte le battaglie che ho dovuto affrontare – racconta Elena – mi hanno tenuto in vita. In quei momenti di acuto e indicibile dolore è nato un rapporto con Dio costante tanto che gli ho detto: “Decidi tu, Signore, cosa vuoi fare di mio figlio, ma se non me lo lasci in vita ti prometto che divento la prima prostituta d’Italia”. E, poi, non so da dove mi veniva questa convinzione, dicevo ai medici: “Voi salvatemelo, poi ci penso io”».
Lo stato di abbandono è totale perché non esistono aiuti di qualche tipo. Una passione che ricorda ad Elena la Settimana Santa. Un corpo giovane, bello, pare scolpito, eppure un corpo senza vita. «Mi sembrava di avvertire lo stesso strazio della Madonna quando tiravano giù dalla croce il suo Gesù». La sua è una fortunata famiglia benestante. Vendono tutto quello che serve per curare Giorgio che trascorre due mesi in rianimazione con piaghe da decubito in tutto il corpo perché allora non si sapeva neanche che la persona doveva spesso cambiare posizione. Poi due mesi in una clinica a Milano, due mesi a Innsbruck, fino al ritorno a Genova con la trasformazione della casa per renderla adatta alla riabilitazione di Giorgio.
La passione di Elena
Elena Di Girolamo, una elegante signora 72enne, non era nuova ad esperienze del genere, segnata già da un abisso di dolore. Madre di 4 figli, «dipinti col pennello», uno più bello dell’altro, una professione gratificante e remunerativa, gioielliera ed orafa, e una vita apparentemente dorata. È il 14 aprile del 1979, pochi mesi prima dell’incidente di Giorgio.
La motocross dell’altro figlio maschio, il sedicenne Roberto, sfreccia veloce nel circuito allestito nei campi adiacenti la loro casa di campagna. Elena è al lavoro ma avverte di dover tornare di corsa a casa.
Una vicina l’avverte: «Tuo figlio Roberto ha avuto un incidente con la moto». In ospedale chiede ai medici dov’è ricoverato, in che reparto fosse. Ma la risposta è lapidaria: «Suo figlio non ce l’ha fatta!». È già in obitorio. Ha urtato la testa contro una sbarra di legno che delimitava l’accesso ad un campo e che aveva tentato di passare abbassandosi.
«Non si può descrivere il dolore della perdita di un figlio – racconta con emozione Elena –, ti lacera den-tro e ti domandi perché il Signore si è girato dall’altra parte».
La rinascita di Giorgio
Una famiglia già provata dalla scomparsa di un figlio si trova ora alle prese con problematiche nuove e complesse. Con una forza e determinazione straordinarie Elena combatte le sue battaglie per fornire a Giorgio tutti gli ausili necessari perché si riprenda. In Italia non si sa nulla del coma ed incontra a Milano persino dei medici di Israele e degli Stati Uniti che hanno maggiore esperienza nel campo.
Nove mesi dopo l’incidente è presente in casa il fratello di Elena proveniente dalla Svizzera. Per dimostrargli che Giorgio lo ascolta e capisce quando gli parla, gli chiede di mettersi in una mano 5 mila lire e nell’altra 50 mila e di chiedere a Giorgio quali vuole. Allunga il braccio, con un movimento durato mezz’ora, e prende le 50 mila lire. È il primo gesto venuto dal nulla. Con progressi lentissimi e una riabilitazione costante di otto ore al giorno per quattro anni, Giorgio riuscirà ad alzarsi e camminare. Una prima grande vittoria per una battaglia che dura da più di 30 anni e continua ancora.
Vita fragile
La vita è un mistero. Un miracolo la nascita. Una porta verso il non conosciuto e il non detto la morte. Tra l’inizio e la fine, la bellezza dell’esistenza è avvolta in una fragilità senza tempo e in un equilibrio precario che si può dissolvere in un istante. È il caso delle persone in coma, in stato vegetativo e di minima coscienza, o soggette alla sindrome di locked-in. Tutti casi di persone che hanno intrapreso un percorso, ancora parzialmente inesplorato dalla scienza, tra vita e non vita. E la ricerca scientifica nei gangli del cervello, la parte più importante e sconosciuta del nostro corpo, apre a mille interrogativi non risolti. Che grado di consapevolezza dell’ambiente circostante è percepito? Che reazioni impercettibili ai sensi umani vi sono? Fino all’insondabilità nel capire i loro pensieri e che grado di autocoscienza esiste. E, infine, il mistero dei misteri: il trascendente può essere percepito dai nostri neuroni anche in un mondo cerebrale compromesso?
Assenza di dati
Non solo non si è in grado di rispondere a queste domande e neanche ad approdare ad una definizione condivisa di coscienza, ma anche non ci sono dati epidemiologici e censimenti ufficiali che ci aiutino nel comprendere la vastità del fenomeno. E questa assenza di dati dice molto sulle carenze del nostro sistema socio-sanitario che presenta poche eccellenze diffuse a macchia di leopardo nel Belpaese.
Le persone ricoverate in ospedale, secondo i dati raccolti dalle Regioni d’Italia, che sopravvivono almeno 96 ore ad una grave lesione cerebrale, sono stimate intorno ai 20-40 casi all’anno ogni 100 mila abitanti. Il 43 per cento dei casi sono danni di natura traumatica come nei frequenti incidenti stradali. Le lesioni invalidanti più comuni, che si verificano soprattutto nella fascia d’età tra i 20 e i 30 anni in soggetti maschili, sono quelle traumatiche craniche stimate in 3-5 casi l’anno ogni 100 mila abitanti. Nel restante 57 per cento dei casi i danni cerebrali sono causati da emorragie, ictus, infarto, anossia cerebrale, allergie per arrivare ad una stima di 330 mila casi nel nostro Paese. Ogni anno il 10 per cento resta con gravi lesioni e più di 2 mila rimangono in stato vegetativo. E qui è il punto. Passata l’emergenza iniziale, necessitano strutture che funzionino per accompagnare il malato e la sua famiglia in un percorso di riabilitazione costante.
La solitudine delle famiglie
Nell’immenso oceano del quotidiano naviga la sofferenza nascosta e la solitudine delle famiglie alle prese con un evento imponderabile e spiazzante. Un evento così traumatico e persistente nel tempo può portare all’isolamento della famiglia, alla perdita del lavoro, allo sfilacciamento o al fallimento delle relazioni coniugali e parentali. Senza sottolineare il fatto che l’assistenza rimane nella grande maggioranza dei casi un onere quasi esclusivo della famiglia con un impatto devastante dal punto di vista economico, della qualità della vita, dei progetti e delle scelte a lungo termine.
La rete
Dall’esperienza diretta, da persone marchiate dal dolore, dall’abbandono da parte di tutti, dall’esclusione sociale per avere un figlio con handicap, «abbiamo deciso – chiosa Elena – di non fuggire questo dolore ma di metterci a disposizione di esso». Si crea così qualcosa di nuovo. Nasce a Genova nel 1995 l’associazione Rinascita Vita onlus (www.rinascitavita.it), che fornisce assistenza e riabilitazione per pazienti con gravi cerebrolesioni acquisite con esiti da coma. Oggi segue più di 100 persone al giorno tra assistenza domiciliare, centro diurno e residenziale, ambulatori. Più di 3 mila le famiglie assistite negli anni.
Se non ci fossero state Elena e le sue figlie Paola ed Emanuela, parenti e amici che l’hanno seguita, in Liguria non ci sarebbero centri del genere. «Le grandi conquiste si ottengono solo con l’amore e la perseveranza» è il suo motto. Così nel resto d’Italia le eccellenze della riabilitazione dopo il coma sono nate a Bologna, Gli amici di Luca onlus, da Fulvio De Nigris dopo la morte di suo figlio. E così per Genesis a San Pellegrino Terme (Bergamo), A.r.c.o. 92 a Roma e Gli amici di Ale a Pordenone.
Sono legate insieme da La rete, un coordinamento di associazioni dove ogni famiglia si può rivolgere per ogni tipo di domanda e sono censite anche dal Libro bianco del ministero della Salute sugli stati vegetativi e di minima coscienza (www.salute.gov.it/imgs/C_17_pubblicazioni_1377_allegato.pdf) che presenta il punto di vista delle associazioni che rappresentano i familiari. «Chiamateci – dice Elena – , non vi lasceremo soli, con i nostri figli abbiamo visto che una rinascita è possibile».
Solo insieme ce la si può fare
Paolo Bongioanni, neurologo, ha fondato l’associazione NeuroCare onlus (www.neurocare-onlus.it).
Quale lo scopo dell’associazione?
«Seguiamo malati con diversi tipi di malattie neurodegenerative e curiamo non solo persone che soffrono di Sla (Sclerosi laterale amiotrofica), ma anche afasici, dementi, parkinsoniani. L’assistenza è fondamentale soprattutto nelle malattie croniche progressive. L’importante è ricordarsi sempre che, anche nella malattia, ognuno rimane “persona”, e come tale va trattato».
Che cosa vi caratterizza?
«Se un’associazione è composta solo da malati gravi e loro familiari, quando i malati muoiono l’associazione spesso finisce. Se invece dell’associazione fanno parte anche volontari e medici, allora continua e può essere maggiormente efficace. Le attività di ricerca che promuoviamo sono di tipo clinico, costantemente ispirate dalle problematiche assistenziali della persona malata e della sua famiglia».
La presunta normalità
di Adriano Fabris, docente di Filosofia morale all’università di Pisa
Uno degli elementi che caratterizzano la mentalità del nostro tempo, una delle sue ossessioni, è l’idea che tutto possa essere messo sotto controllo. Gli sviluppi delle tecnologie e la loro applicazione ai vari ambiti della vita sembrano confermare questa convinzione. Ma in realtà le cose non vanno in questo modo. Non siamo certo in grado di controllare tutto. E tuttavia questa persuasione non viene affatto meno. E comporta ben precise conseguenze.
Fra esse, in particolare, vi è un’idea davvero pericolosa. È l’idea per cui ciò che non possiamo gestire non ha alcun valore. Non ha valore perché non rientra nella normalità: in quella normalità che, appunto, è tale perché risponde a determinate procedure e da esse può venire governata. Il diverso, invece, non è controllabile: possiamo dunque abbandonarlo al suo destino.
Questi, forse, erano i retropensieri dei medici che ritenevano inutile operare Giorgio, il ragazzo di 21 anni entrato in coma profondo dopo un incidente automobilistico. I genitori invece, come raccontano nel sito dell’associazione Rinascita Vita Onlus, non hanno voluto lasciarlo andare. Iniziano in un primo momento a «vivere con lui quel lungo sonno». Riescono ad attivare con il figlio una forma di comunicazione, fino al suo risveglio. Lo aiutano, pur avendo lui subìto parziali lesioni cerebrali, a ricominciare a vivere. E tutto questo lo fanno da soli.
Ora i genitori di Giorgio hanno messo la loro esperienza al servizio degli altri: di tutti coloro che, colpiti da un’analoga tragedia, rischiano di perdere la speranza, sono abbandonati a loro stessi, sono rinviati alle sole risorse materiali e morali della famiglia. È bene sottolineare il loro sforzo, perché, come dicevo, va in controtendenza rispetto alla mentalità dominante oggi: l’epoca della «dittatura della procedura». I genitori di Giorgio, come tanti altri genitori, ci mostrano invece qualcosa di fondamentale. Ci dicono che agli occhi di chi ama ha valore anche tutto ciò che non rientra nei canoni, rigidi e ristretti, di una presunta normalità.