Vita ed esistenza in Leopardi

Si continua a studiare Leopardi, a scrutarlo, ad amarlo. Segno non solo della grandezza in assoluto di questo straordinario poeta-pensatore, ma anche della posizione epocale e cruciale della sua parola in un tempo che è anche il nostro, quello della massima crisi della modernità. Che si moltiplichino perciò indefinitamente le letture della sua opera non è sorprendente, perché rivela la sua statura di profeta, in ogni senso, ferito e sanguinante del nihilismo moderno. Ma c’è modo e modo di studiarlo. In Italia, particolarmente, Leopardi è stato e in parte è ancora, spesso, la coperta corta della cultura ideologica, da chi lo ha voluto socialista a chi lo ha rivendicato cristiano tout court, mentre cristiano può e deve dirsi, sì, quanto a inestirpabile radice culturale, e più puramente e con più verticale profondità biblica – Giobbe moderno – di tanti credenti; ma cristiano in rivolta, perduta la fede, e coerentemente anti-teista (non ateo, come superficialmente ancora qualcuno ripete: aveva il cuore troppo grande), pronto a maledire il dio-natura da lui ritenuto malvagio. Profeta, e precursore del radicalismo nihilista borghese, lui non borghese, che ha diagnosticato precoce- mente (prima di Nietzsche) l’orrore del non credere in nulla, esprimendone poeticamente il sentimento di alta desolazione. Ha ragione perciò Loretta Marcon di temere che il progresso anche tecnico degli studi leopardiani comporti a volte una “scarnificazione(…), di quel sentimento che è alla base dell’opera di Leopardi”. Certo, Leopardi paga il suo disperato materialismo con clamorose contraddizioni filosofiche (a differenza dei materialisti classici, meno esigenti di lui), come quando riscrive il titolo de L’Infinito (1819) con la minuscola (L’infinito, 1826) e crede di trasformare l’infinito spirituale in “indefinito” materiale (1820) parlando di “infinità materiale”, che è un assurdo logico prima che metafisico. La natura diventa, conseguentemente, da vita, esistenza (1823, da ottobre a novembre!), e quindi “il materiale non può esser vivo, e non ha a che far colla vita, ma solo colla esistenza “: è come se Leopardi scoprisse in sé non solo una malattia, ma un corpo alieno, come novant’anni dopo l’insetto di Kafka (La metamorfosi). Nella contraddizione tra materia/ esistenza e vita va in frantumi anche la logica aristotelica del principio di non contraddizione (1824), e l’uomo si trova ormai murato nella sua intrascendibile alienazione. Intrascendibile? Ma c’è la poesia: Loretta Marcon, seguendo con pazienza euristica i passi di Leopardi, mette in rilievo l’ulteriore distinzione, nella materiale esistenza, tra esistenza ed esistenti, che sono le vittime, non solo gli enti, della natura; e tra loro i poeti, il poeta, lui. Leopardi arriva all’anti-Genesi della famosa, agghiacciata ed agghiacciante pagina “Tutto èmale… ” (I826), con assoluta, per quanto tragicamente distorta, genialità (nel secolo successivo Sartre scriverà l’anti-Cantico delle creature nella famosa descrizione del giardino in La nausea, anticipato anche lui da Leopardi); e alla conseguente scoperta-sentimento, con alta purezza ed innocenza di dolore, della noia, ben diversa da quella volgare oggi diffusa; noia che è frutto e succedaneo inevitabile della vita negata, dell’amore respinto, dell’amicizia rifiutata. Conoscere diventa la spassionata passione (e qui, nota la Marcon, è anticipato Pirandello) del disperato che sanguina il suo immedicato dolore. Loretta Marcon riscopre “il cuore umile e autentico di Giacomo” che scrive La quiete e Il sabato e irrora il Canto notturno e La ginestra di meravigliosa tristezza spirituale: di quella testimonianza di vita e perciò di eternità che la filosofia negava e la poesia, trascendendo la propria stessa filosofia, ridiceva e ricantava per sempre. Il lavoro della Marcon sfaccetta, come un prisma, la luce intera della poesia leopardiana, e diventa così un’ottima introduzione alla conoscenza integrale e profonda del genio pensante-poetante.

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