Vita da Carlo

Un Verdone leggero, divertente, coinvolgente. Immerso in una Roma elegante e magnifica.

Un po’ si celebra, un po’ si confessa, un po’ si racconta, un po’ si sfoga e un po’ sperimenta. Carlo Verdone. Con questo leggero, spesso divertente, ogni tanto coinvolgente, qua e là edificante, ibrido tra televisione e cinema: un narrare frammentato, episodico, “malincomico” come da tradizione, di quasi tre ore inevitabilmente ondivaghe, ma anche amabilmente vivaci, tutto sommato autobiografiche, raccolte nei dieci episodi di Vita da Carlo, su Amazon Prime Video dal 5 novembre scorso.

Si mette in gioco, il caro vecchio Verdone, se non a nudo almeno in canottiera: per fare i conti con se stesso, per fare il punto, per parlare di quello che ha fatto, che è stato, che ha rappresentato. Del suo rapporto con la gente, coi suoi figli, con gli amici e col suo mondo professionale. Un po’ anche del suo futuro, con in testa la parola libertà.

E poi dei romani e della sua amata, complessa, splendida e malmessa Roma: accarezzata, criticata, cantata, compianta, ammirata all’alba, fotografata di continuo nella sua bellezza antica. Con un omaggio a C’eravamo tanto amati, alle spalle del Campidoglio, anche.

Ogni tanto in periferia, dove uno dei tanti giovani di cui sempre abbonda il suo cinema – e di cui si mostra complice, alleato, empatico – gli dice, spiazzando, facendo fragorosa comicità: «Ma che te senti Pasolini che veniva a cerca l’ispirazione ‘n periferia?». Un guizzo, una pennellata di penna tra le numerose schizzate sulla lunga tavolozza di questa serie di un (e su un) grande dello spettacolo italiano.

Tutta on the Road dentro una Roma elegante e magnifica, ancora mozzafiato sotto la coltre di rumore e disordine; una compagna incantevole e acciaccata, molto giallorossa e parecchio caciarona, qui assunta a coprotagonista insieme a una deliziosa Anita Caprioli (nei panni di una farmacista romanticamente spasimante) e a un sempre più spassoso, a tratti irresistibile, Max Tortora.

Piú o meno anche lui, relativamente e sostanzialmente nei panni di se stesso; spalla gustosa e robusta di un Carlo stressato e sensibile, stanco, goffo, buffo. Incline alla gaffe, ma anche sentimentale, sfruttato per la sua popolarità, a cui capita di entrare in una chiesa a riposare l’anima. Desideroso di esprimersi artisticamente con un cinema impegnato, ma schiacciato, o quantomeno frenato, dai mitici personaggi a cui la gente è ancora tanto affezionata: Mimmo, Leo, Ivano, Sergio Benvenuti, Oscar Pettinari.

Ogni tanto qualcuno, tra i vari, bizzarri, coloriti, caratteri incontrati nel racconto – ce n’è anche uno interpretato da Paolo Calabresi che minaccia di buttarsi dal Colosseo – gli chiede di rifare la battuta di questo o quel personaggio. E si arrabbiano se lui li fa svogliatamente. E allora Carlo, assecondando la sua indole bonaria che fa rima da sempre con la sua comicità, si impegna di più, ripercorrendo in modo simpaticamente dissacrante, ma anche affettuosamente nostalgico, tanti anni di una carriera straordinaria.

E fa ancora ridere nella quasi sofferente imitazione di se stesso. Che diventa costante, insieme al racconto più intimo versato in una freschezza nuova: in questa formula della biografia delicata che cavalca l’onda sempre più collaudata di una serialitá che definire televisiva rischia ormai di non essere corretto. Sarebbe meglio dire “da dispositivo”. O serialitá e basta. Meglio ancora. In ogni caso terra di mezzo, mondo a sé stante, ponte, anello, forse anche salvagente per il piccolo e per il grande schermo. Perchè la libertà di spazio che offre consente di azzardare, di sostare meglio, di tentare, di giocare costruttivamente.

E in questo cavalcare i tempi ormai praticato da molti registi di cinema (quanti sono quelli che hanno girato almeno una serie? Tanti!) Vita da Carlo è coniugato al presente anche nei contenuti. Perché oltre alla freschezza e alla giocosità spalmate sulla lunga durata, questa esperienza/esperimento è anche un racconto sulla comunicazione oggi: la candidatura a sindaco di Roma del protagonista – che lega la trama dall’inizio alla fine della serie – è un buon pretesto per parlare di viralità, di social, di visualizzazioni, di trend topic, del rapporto tra media politica e vita.

Tema efficacemente fuso con il personale, appunto, con la biografia più o meno mascherata messa in scena in modo sottile e originale, dentro la quale affiora anche il Verdone invisibile, non realizzato: quello colto, impegnato, del liceo classico, della laurea in lettere con 110 e lode, l’intellettuale dei primi cortometraggi underground come Allegoria di primavera o Elegia notturna. Poi ghiacciato, forse eternamente, dal successo televisivo e poi cinematografico enorme.

Quello che però ancora respira e assaporiamo nel monologo di Shylock (da Shakespeare, Il mercante di Venezia) recitato da Alessandro Haber di notte al Gianicolo, certamente graffiato da intermezzi romaneschi e coloriti di Verdone; oppure nella chiacchierata su Seneca di Carlo con il protettore di prostitute interpretato da Rocco Papaleo. O ancora in qualche altro apprezzabile passaggio d’autore di questo simpatico viaggio narrativo che torna a far girare il motore di Verdone a buon ritmo, che gli fa percorrere se stesso, temporalmente ed interiormente, in modo gradevole e tutto sommato sorprendente. Ed è una buona notizia.

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