Vita da bohème, oggi

Dal 13 al 24 giugno va in scena al Teatro dell’Opera di Roma La bohème, capolavoro di Puccini e pietra miliare dell’opera lirica

Altro che la Parigi degli anni 1830 “dai mille bigi comignoli”, dove vive il quartetto di artisti squattrinati, con Rodolfo che ama Mimì “gaia fioraia”. Adesso siamo in una metropoli anonima di cupi condomini in acciaio, dove abita una umanità emarginata e periferica che vive di espedienti, più di notte che di giorno. Un allestimento prodotto dall’Opera di Roma insieme al Teatro Regio di Torino con le scene oscure di Alfons Flores e la regia di A’lex Ollè de La fura dels Baus, equilibrata nelle scene di massa, non invasiva e adatta a riattualizzare il dramma giovanile di poche o nessuna speranza: un pessimismo di fondo attuale un po’ grigio. Meno male che la musica di Puccini solleva la malinconia della giovinezza fuggitiva nella freschezza dell’idillio tra i due giovani, anche se è rapido, consumato in fretta e chiuso nella malattia mortale di Mimì, che muore di tubercolosi, come la Violetta verdiana.

Solo che Verdi compone un dramma tragico e femminilmente eroico, mentre qui di eroico c’è solo l’amore tra due emarginati che provano a godere un attimo di vita senza problemi, pur senza futuro («Ci lasceremo alla stagion dei fior»). Ma l’incanto dell’amore rimane: sarà piccolo, intimo, domestico, ma è pur sempre amore, fresco e sincero. Puccini alza brevi frasi melodiche che s’imprimono nella memoria – e ”dicono” un personaggio –, orchestra con una vaporosità sinfonica che conosce bene Wagner ma anche Bizet, canta in linea con l’ultimo Verdi, essenziale e scorrevole. Tornano i leit-motiv ma come rimembranze del cuore, ogni volta con sfumature diverse: Puccini conosce bene l’animo umano, specie quello femminile. Non ama però indugiare troppo nel sentimentalismo, come in certo Massenet ed anche nella sua Butterfly. Sintetizza in quadri veloci la storia di allora e di sempre dei giovani nel mondo cittadino, liberi e poveri, ardenti e indecisi.

Sono convinto che La Bohème sia l’opera migliore del compositore (insieme alla poco eseguita Fanciulla del West), per inventiva melodica, profumo orchestrale, atmosfere vivaci e quella dolcezze triste – un po’ alla Gozzano – dell’ultimo romanticismo, che succhia il meglio dal passato e lo apre al futuro, ma anche forse chiude una stagione irripetibile nel teatro musicale. Il fatto è che ci si commuove ancora a 120 anni di distanza, entrando nella storia dei bohèmiens e la morte di Mimì con lo strazio di Rodolfo fa ancora rabbrividire, se si è mantenuto un minimo di sensibilità. Questo significa che la musica è vera e bella, perfetta. E pure che il cast nell’edizione romana è stato all’altezza. Il Marcello di Massimo Cavalletti è parso il migliore per canto sciolto, insieme al Rodolfo virile di Giorgio Berrugi, e alla Musetta di Olga Kulchynska. Forse la Mimì di Vittoria Yeo, per quanto centrata, avrebbe bisogno di maggior rifinitura espressiva. Perfetti il coro e la Scuola di canto corale del teatro, con la sfilata delle dinamiche majorettes.

Intensa la direzione di Henrik Nànàsi che ha il dono della chiarezza, della misura tra le varie sezioni dell’orchestra, è aperto alle voci come pure ai colori “impressionisti” di una partitura che allinea luci ed ombre incessanti, preziosa e sfumata. In una parola, affascinante.

Si replica fino al 24/6.

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