Visioni diverse sulla povertà che avanza

In cosa divergono le politiche di contrasto dell’impoverimento crescente? Ben il 180% in più di poveri assoluti negli ultimi 10 anni. Le differenti prospettive tra reddito di inclusione e il reddito di cittadinanza versione governativa nell’intervista a Nunzia De Capite di Caritas italiana
ANSA/CESARE ABBATE

Il contrasto dell’impoverimento crescente in Italia è una questione troppo seria e urgente per lasciarla ostaggio delle battute e banalità che avvolgono, spesso, il dibattito sul cosiddetto reddito di cittadinanza.

Continuando nell’approfondimento avviato da tempo come Città Nuova, abbiamo rivolto alcune domande a Nunzia De Capite, sociologa, tra gli esperti di Caritas italiana che, ogni anno, pubblica un autorevole rapporto su povertà e politiche di contrasto, riconosciuto punto di riferimento per ogni tipo di analisi e proposta.

Come abbiamo già riportato, lo scorso 17 ottobre, durante la presentazione del denso volume del rapporto 2018 “Povertà in attesa”, si è palesata, con toni rispettosissimi, la sostanziale differenza di prospettiva tra il Reis (Reddito di inclusione sociale) proposto da Caritas, assieme all’Alleanza contro la povertà, e il modello di intervento del governo in carica che ha tra i consiglieri del ministro del Lavoro l’economista Pasquale Tridico.

Per capire meglio la posizione della Caritas chiediamo alla sociologa De Capite: quale è il nodo della questione spiegato ad un non esperto?
Quando si affronta la questione della povertà nel nostro Paese oggi, occorre tener presente una fondamentale distinzione: un conto sono le politiche e gli interventi di contrasto alla povertà e un altro sono le politiche per l’inserimento lavorativo. C’è una grande confusione intorno a questo e le informazioni che sono circolate nel dibattito pubblico e mediatico negli ultimi mesi non hanno contribuito a chiarire i termini della questione, anzi. Per questo è importante definire due premesse Importanti

In cosa consiste la prima premessa necessaria per approcciare il problema?
Per prima cosa dobbiamo immaginare la povertà come un mosaico composto da molti tasselli: l’assenza di lavoro, la perdita della casa, la fine di un matrimonio, un problema di salute, una fragilità psicologica, forme di dipendenza da sostanze o da gioco e così via.

Per questo in materia si parla di multidimensionalità della povertà, per evidenziare la molteplicità di aspetti che caratterizzano la condizione di chi è povero. Questo significa che per affrontare la povertà e intervenire su di essa bisogna considerare questa pluralità di piani e il fatto che a volte essi convivano. A tal proposito e a riprova di ciò vorrei sottolineare che ad esempio, nell’ultima rilevazione che Caritas Italiana ha condotto sulla povertà in Italia è emerso che il 40% delle 197.000 persone che si sono rivolte alle Caritas per cercare aiuto nel corso del 2017 presentava più di tre problemi contestualmente.

E qual è il secondo aspetto da tener presente quando si parla di povertà?
Che la povertà è trasversale ormai e arriva dove fino a qualche anno fa era impensabile che giungesse. Questo è stato uno degli effetti della crisi del 2007-2008: nessuno è più immune dal rischio di cadere in povertà. Dal 2007-2008 il fenomeno della povertà assoluta non solo si è sensibilmente esteso, aumentando in dieci anni di più del 180%, ma ha anche mutato profilo.

In che senso?
Prima la povertà si concentrava nelle regioni meridionali, colpiva famiglie con tre o più figli, soprattutto se minori, famiglie in cui non si lavorava e in cui i membri erano anziani. Dal 2008 in poi, i dati ci consegnano un quadro in mutamento: la povertà assoluta aumenta nelle regioni settentrionali, colpisce anche le famiglie con due figli, è aumentata negli anni fra coloro che hanno un lavoro e fra persone giovani e adulte (25-44 anni). Si pensi solo che dal 2005 al 2015 la povertà al Nord è aumentata del 200% e, fra chi ha un lavoro, del 268% ( si veda il testo di Cristiano Gori “Un nuovo modello di povertà” del 2018).

Numeri impressionanti. Con quali conseguenze operative?
Il cambiamento che ho cercato di descrivere retroagisce sul modo in cui disegnare gli interventi di contrasto alla povertà. Cioè se la povertà diventa trasversale e perde i tratti di specificità che aveva prima, allora occorre progettare e realizzare misure che questa trasversalità la assumano in toto. Occorre, quindi, mettere le persone in povertà nelle condizioni di avere quel minimo indispensabile per vivere decentemente, indipendentemente da dove vivano e dalla molteplicità di cause che hanno determinato la loro situazione di disagio.

E questa necessaria premessa cosa ci dice sulle differenti prospettive di intervento?
Che nel dibattito di questo periodo fra il reddito di cittadinanza e il Rei ( Reddito di inclusione, la misura di contrasto alla povertà attualmente in vigore nel nostro Paese, ndr) il punto discriminante è il diverso fuoco che le due misure hanno. Da quello che sembrerebbe di capire – sul reddito di cittadinanza non ci sono ancora disegni di legge a parte quello depositato nel 2013 dalla senatrice Nunzia Catalfo – il reddito di cittadinanza parte dall’assunto che la causa della povertà è l’assenza di lavoro e dunque assegna priorità all’inserimento lavorativo come misura di contrasto alla povertà. Il Rei invece è costruito come una misura che dota le persone in povertà di un contributo economico variabile a seconda dell’ampiezza familiare e lo lega a una serie di altri interventi ritagliati sui bisogni della persona o del nucleo familiare che essi realizzano insieme ai servizi sociali o anche ai centri per l‘impiego. Si tratta quindi di due modelli di intervento molto diversi quanto a impostazione.

Cosa non vi convince di questo approccio?
Fare dell’inserimento lavorativo la via principe per affrontare e risolvere il problema della povertà è concettualmente errato per le ragioni esposte: la povertà è un coacervo di forme di disagio, di cui l’assenza di lavoro è solo uno degli aspetti. Un conto sono le politiche di contrasto alla povertà, un conto sono le politiche di inserimento lavorativo. Inoltre vi è un rischio insito nel curvare le misure contro la povertà verso interventi di inserimento lavorativo: significa creare aspettative irrealistiche rispetto all’’inserimento lavorativo delle persone in povertà. La letteratura scientifica dice che quando si fa inserimento lavorativo di persone in povertà, un terzo di queste riescono a inserirsi stabilmente nel mercato del lavoro, un altro terzo acquisisce competenze e si riqualifica dal punto di vista professionale ma non trova lavoro stabilmente, il restante terzo migliora un po’ le proprie condizioni economiche e vive meglio rispetto a prima.

Una volta chiarito lo stato dell’arte, possono esistere margini di intesa tra diverse forme di intervento?
Possiamo dire che, per come parrebbe delinearsi il reddito di cittadinanza, ovvero una misura di inserimento lavorativo, essa potrebbe innestarsi su una misura come il         Rei che punta invece sul contrasto alla povertà assoluta. Si potrebbe cioè col Reddito di inclusione coprire ragionevolmente il target delle persone in povertà assoluta (quelli che definiamo gli ultimi) e farlo con una erogazione economica unita a una serie di servizi necessari alle persone per migliorare le proprie condizioni di vita (supporto psicologico, mediazione familiare, ecc.). Per poter essere una efficace misura di contrasto alla povertà, il Rei richiede ancora però che si incrementino gli importi mensili (oggi ancora troppo bassi: si dovrebbe passare dagli attuali 308 di media a 398) e che si ampli platea dei beneficiari (oggi il REI ha una platea di beneficiari potenziali di 2,5 milioni di persone, la metà dei poveri assoluti in Italia). Fatto questo, si potrebbe immaginare un intervento come il reddito di cittadinanza rivolto a coloro che si collocano in una fascia di disagio appena sopra i poveri assoluti, sono i penultimi, ovvero i poveri relativi (circa 9 milioni e mezzo di persone). Ma per costoro andrebbe verificato che l’inserimento lavorativo sia l’unico intervento in grado di aiutarli a superare la situazione di difficoltà in cui versano.  Non è detto infatti che sia così. Per questioni di equità non possiamo intervenire sui penultimi senza prima aver verificato di aver raggiunto coloro che stanno peggio, ovvero gli ultimi.

 

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