Visibilità alla Zuppi e alla Lorefice
“Appaio dunque esisto”, sembra il nuovo imperativo cartesiano del XXI secolo. Si sgomita per apparire qualche istante in tv, per raggiungere la notorietà, ognuno con i mezzi che ha: la politica, l’estrosità, l’arte, i soldi…
C’è la visibilità negata dalla magistratura ad un principe del narcisismo mediatico, come quella comminata a Fabrizio Corona che, condannato a 13 anni per vari reati commessi in passato, ha potuto rivedere l’aria pura e riprendere a lavorare, ma col divieto assoluto di Facebook e di concedere interviste. Pena del contrappasso.
C’è poi la visibilità a tutti i costi di Ignazio Marino che, sfogliando da venti giorni la margherita dagli infiniti petali del “sono sindaco-non sono più sindaco” occupa le prime pagine dei giornali romani e le secondo di quelli nazionali. Francamente un po’ troppo.
Esplode il caso del giudice Carlo Deodato, estensore della sentenza del Consiglio di Stato che ha bocciato la trascrizione dei matrimoni gay contratti all’estero. Il problema non è la sentenza, ma il fatto che abbia il “vizietto” (per un giudice) di esternare le sue opinioni cattoliche contrarie alle nozze gay su Twitter e FB. Visibilità non opportuna, decisamente.
Infine respiriamo, alle sedi arcivescovili di Palermo e Bologna sono stati chiamati due “pastori”, due uomini ancora giovani (53 anni Corrado Lorefice e 60 Matteo Zuppi), nominati perché “vicini alla gente”, perché assolutamente non virtuali e molto reali nel manifestare la visibilità dell’amore cristiano presso gli uomini e le donne delle loro parrocchie. La Chiesa sta cambiando, decisamente.