Virtuosismi e passione a Santa Cecilia

Grande successo per il Concerto per violino e orchestra di Cajkovskij all'Accademia romana, grazie al violino di Lisa Batiashvili e alla direzione di Antonio Pappano.

“È un diavolo questa violinista!”, mormora soddisfatto qualcuno dopo aver ascoltato Lisa Batiashvili nel Concerto per violino e orchestra di Cajkovskij all’Accademia romana di Santa Cecilia. In effetti, l’artista georgiana di fuoco e di classe ne ha da vendere. Il concerto, per quanto popolarissimo per l’ardente melodiosità e i ritmi passionali, è pieno di tranelli. Virtuosismo all’impazzata, specie nella cadenza del primo tempo e nel finale “vivacissimo”, equilibrio tra colori e ritmo, tempi ora dilatati e sensuali ora dinamici e stringenti. Insomma, l’anima russa al grado estremo, quella di un musicista ipersensibile, fragile e ossessionato dalla vita e dall’amore. Perciò questa musica così sanguigna e appassionata trascina.

Antonio Pappano ha il gusto di dosare gli interventi orchestrali in modo da non “coprire” il violino che Lisa, di suo, trascina con una energia spiazzante.  Se nel primo tempo emerge la femminilità languida, nell’ultimo è il trionfo della fantasia, mentre nella Canzonetta il violino freme e palpita di sussulti amorosi. Un capolavoro, con Lisa e Pappano all’unisono e l’orchestra piena di colori e di passione.

E, a questo proposito, occorre citare i due brani che hanno preceduto Cajkovskij. Si tratta di Voci dal silenzio, cantata dedicata a tutte le stragi della storia, di Ennio Morricone, composta  a ricordo dell’evento delle Torri Gemelle nel 2011. Un coro fluttuante come un basso continuo mentre nastri magnetici facevano risaltare  la babele di oggi tra guizzi di legni e gracchiare di ottoni. Mariano Rigillo recitava i versi dolorosi di Richard Rive. Una commozione generale, più sospesa che gridata.

Prima ancora il concerto si è aperto con la Sinfonia n. 8 in si minore Incompiuta di Schubert. Incompiuta non lo è certo nel sentimento e nell’espressione che è completa: dopo, non si sarebbe potuto scrivere di più. Pappano svela un senso dinamico sotteso ai due tempi, senza  escludere l’intimismo schubertiano, e il pathos – specie nell’Andante con moto – , ma preferisce accentuare i chiaroscuri, ammorbidendo i pianissimi al limite dell’udibile quasi come ombre di morte, e poi accendendo i crescendo in esplosioni drammatiche. La tavolozza schubertiana si diffonde tra dolcezze dei legni, calore dei violoncelli e quei brividi del tremolio degli archi che suonano davvero come un vento dell’anima.

Pappano fa comprendere che  su questo brano c’è ancora molto da scavare: sarà forse il caso di riproporlo più spesso, perchè è uno dei capolavori assoluti di sempre. E Schubert, a differenza di Beethoven, è un mistero nascosto che attende nuove rivelazioni. Anche da parte di Pappano, la cui bacchetta “suona” mirabilmente.

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