Violenze di genere: non dobbiamo tacere!

Intervista all'attrice Marina Senesi sul dramma dei femminicidi.

La violenza di genere è una piaga sociale che colpisce le donne indipendentemente dalla loro classe sociale, dal livello di istruzione, dalla situazione economica, ecc. Nel mondo, secondo i dati delle Nazioni Unite, ogni giorno in media 137 donne muoiono a causa della violenza perpetrata dal loro partner o da un membro della loro famiglia. È quindi il contesto familiare ad essere il più pericoloso. In Italia, il rapporto Eures mostra che l’89% del totale dei casi di femminicidio avviene in famiglia. Di questi, il 69,1% è commesso da un partner.

La violenza domestica è quella che avviene tra le mura di casa e può essere commessa da uomini contro donne (82% dei casi) o da donne contro uomini. La violenza di genere, invece, si riferisce alla violenza compiuta a causa della falsa convinzione di supremazia autoassegnata al maschio.

Il 25 novembre è la Giornata mondiale contro la violenza sulle donne, un giorno per ricordare questo dramma, denunciarlo e far pressione affinché le aggressioni finiscano una volta per tutte. In occasione di questa giornata, abbiamo intervistato l’attrice Marina Senesi, che, nei suoi spettacoli, mette a fuoco il tema della violenza di genere e riflette sull’inadeguatezza del linguaggio utilizzato dai media per trattare l’argomento.

Attrice, autrice teatrale e radiofonica. La sua carriera nel mondo dello spettacolo è lunga, specialmente come attrice di teatro civile. Come nasce questa sua vocazione e quali sono i primi passi che ha mosso per trovare la sua strada?
Io ho una formazione classica. A 22 anni ho iniziato a fare la Scuola di teatro a Genova. Poi ho fatto radio, dove ho appreso la bellezza di riuscire a raccontare cose, anche pesanti, in maniera leggera. La vocazione c’era già, ma lì l’ho messa a fuoco. Ho portato quest’esperienza anche nel teatro e mi sono appassionata all’idea di raccontare fatti veri in un modo che le persone ascoltino.

Perché il teatro civile e di denuncia?
L’idea è di raccontare e informare allo stesso tempo. Su questo ho lavorato tanto. L’attore deve avere molta disciplina se vuole fare teatro civile. Bisogna lavorare insieme ai giornalisti di inchiesta e non dire una cosa che non è provata quando la vanità ti porterebbe a farlo. Ci sono delle cose così belle da manifestare che a volte ti viene la tentazione di aggiustarle perché più o meno il senso è quello, e allora il teatro civile perde la sua funzione, diventa fiction. Ma sempre cercando di non annoiare, di essere leggeri, nel rigore documentale.

Ha interpretato il docu/racconto teatrale Doppio Taglio, su come i media raccontano la violenza di genere. Il linguaggio ha un ruolo cruciale nella percezione pubblica dei fatti. Cosa l’ha spinta a portare questa realtà sul palcoscenico?
Ho lavorato con una ricercatrice in studi di genere. Sono rimasta talmente colpita da alcuni passaggi di questa ricerca che ho subito avuto l’istinto di trasporlo in un linguaggio più semplice per poterlo raccontare, anche ai ragazzi. In realtà questa ricerca va a guardare il linguaggio sottotraccia. Non è colpa né del giornalista né del lettore: ci sono figure retoriche che usiamo e che plasmano il nostro immaginario senza che ce ne rendiamo conto.

Nella rappresentazione teatrale spiega che le donne non sono “vittime passive”, “soggetti senza potere”. Ancora oggi la donna viene rappresentata come inferiore, debole, colpevole di quanto accaduto. Cosa manca perché la società, i giornalisti, possano leggere i fatti senza eufemismi?
Mancano ancora un paio di generazioni. A volte si dice: «Si tratta troppo questo argomento…», ma la cosa principale è parlarne, perché i ragazzi e le ragazze si abituino a non stare zitti se c’è qualcosa che non va, e a strappare dall’isolamento le persone che stanno vivendo qualcosa che non dovrebbero vivere. Per quanto riguarda l’idea della vittima, bisogna stare attenti ai cliché. Se nell’iconografia della violenza, le fotografie usate dai giornali per corredare un articolo continuano a rappresentare donne umiliate e terrorizzate, non si fa un bel servizio alla persona che vorrebbe uscire da una tale situazione, perché diventa vittima estetica. In una ricerca di Cristina Gamberi, docente dell’Università di Bologna, si sottolinea quest’aspetto: la vittima è sempre riconoscibile, esposta al giudizio del lettore, mentre il carnefice non c’è mai, come se noi proteggessimo la privacy del carnefice e non quella della vittima, ma è sbagliato come principio. Infatti, si propone e ormai si sta già facendo, di utilizzare immagini di donne fiere, che magari fanno un segno di forza, oppure tante donne insieme, ma non una donna con gli occhi neri e il sangue in faccia, perché questo disincentiva la denuncia. I media raccontano le storie ancora assoggettati a queste figure retoriche, ed è questo che dobbiamo scardinare.

La parola “femminicidio”, come ben dice nella pièce teatrale, non piace, viene spesso evitata. A cos’è dovuta la paura a usare le parole corrette?
Come sempre il nuovo disturba. Le cose esistono quando le nomini. Una specifica di un omicidio attuato per ragione di genere, una volta che si è imparato a distinguerlo, si è anche imparato a valutarlo. Nel momento in cui qualcuno ha avuto l’idea di usare questo termine, vi si è posta l’attenzione: si sono svolte delle ricerche che hanno aiutato e aiuteranno a fare tanti passi avanti. Non bisogna avere paura dei tentativi delle persone di zittirti.

In che modo si può far fronte al femminicidio attraverso l’arte?
Io credo che l’arte non debba poi fare tantissimo, perché sennò si corre il rischio di spettacolarizzare una situazione che comunque è di disagio. Se l’arte serve per dare voce, ben venga, ma ce n’è già stata tanta. Più che arte io direi comunicazione. Credo che sia importante la legge e cambiare la mentalità. Bisogna essere il più sobri possibile, dare informazioni giuste e pretendere giustizia.

C’è stato qualche cambiamento negli ultimi anni nel modo di parlare della violenza di genere?
Penso che siano stati fatti tanti passi avanti, cose che si dicevano 10 anni fa non è più possibile dirle. Però ancora tanta strada è da fare, perché tante volte colpevolizziamo la vittima senza neanche rendercene conto, senza neanche vedere cosa sta succedendo. Ma credo che i giornalisti, specialmente le giornaliste, stiano un po’ più attenti. 

Ha interpretato altre pièce che puntano a battersi per la liberazione della donna e la lotta contro la violenza di genere, com’è il caso de I monologhi della vagina di Eve Ensler. Un titolo che ancora oggi può risultare scioccante e invece racconta come le donne siano colpite dagli stereotipi che assegnano loro il ruolo da interpretare.
È stata molto bella l’idea. Io ho raccontato questa storia come tantissime artiste o rappresentanti della cultura in tutto il mondo. L’abbiamo fatto a Milano in presenza dell’autrice. La pièce era leggera, ironica, drammatica quando era necessario, ma mai volgare. Gli uomini erano attratti dal titolo, allora venivano. Forse per la prima volta ha fatto sì che loro ascoltassero le considerazioni delle donne. Erano divertiti ma anche colpiti, turbati dai racconti di violenza di queste vagine che raccontavano la loro storia. È stata un’operazione bellissima, perché comunque è stata di rottura.

Durante tutti questi anni di ricerca, racconti, incontri… qual è stato il maggior insegnamento che ne ha tratto?
Ho imparato che c’è sempre una strada e qualcuno disposto a indicartela, che ti aiuta ad andare avanti nel tuo percorso.

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