Violenza come grido di aiuto
Abbiamo accolto Alessandro quando aveva 10 anni. La diagnosi della neuropsichiatra era stata: disturbo specifico dell’apprendimento e del comportamento con tratti oppositivo-provocatori. La mamma ci aveva espresso tutta la sua frustrazione per l’incapacità di gestire quel figlio inosservante delle regole, pieno di una energia che solo il rugby sembrava incanalare.
Nel percorso psico-educativo di potenziamento delle abilità cognitive e relazionali, Alessandro era stato presente, pur facendo un po’ di assenze. Aveva comunque manifestato una certa capacità di ascolto, di relazione con gli altri e di adeguamento alle regole ferme, ma espresse con simpatica assertività dalle educatrici.
A 13 anni, però, un anno prima della fine dell’itinerario, Alessandro aveva deciso di non venire più e i genitori si erano adeguati, seppur con rassegnazione. Gli incontri mensili di sostegno alla genitorialità non erano stati sufficienti per imparare ad esercitare il proprio ruolo educativo. La mamma era sempre venuta da sola e con un senso di abbandono, perché il marito era legato a un modello fatto di poche parole e schiaffi se necessario. Insomma, per noi un fallimento.
Dopo 4 anni, la mamma Agnese è tornata chiedendo aiuto per la figlia Noemi di 7 anni, con un lieve ritardo cognitivo. Il suo vissuto di madre era sempre il solito: solitudine e incapacità di seguire la figlia.
Gli incontri sono continuati anche durante il lockdown, in video-chiamata, consentendoci di sostenere la signora in difficoltà per la convivenza forzata col marito che per la crisi lavora di meno, e con il figlio Alessandro. Quest’ultimo, compiuti 18 anni, ha lasciato la scuola professionale intrapresa dopo la sudata terza media, ha aumentato intemperanze e non rispetto delle regole, ricorrendo anche a minacce e tentativi di aggressione fisica al padre.
Negli ultimi giorni il motivo del contendere è la richiesta del ragazzo di trasferirsi a vivere nella sala hobby, per evitare i fastidiosi richiami dei genitori alla responsabilità. Non vuole essere disturbato, continuando però a vivere a spese dei genitori, con la mamma che gli porta i pasti e gli lava e stira i vestiti.
Durante il colloquio il volto della signora è tutto rosso, segno di una compressione della rabbia che non riesce ad esprimere. Non vede alcuna possibilità di soluzione. Con una équipe multidisciplinare cerchiamo di capire se ci sono strategie per sostenere questa famiglia.
La consapevolezza di noi operatrici è la stessa: tra genitori e figlio si è interrotto il dialogo, bloccato in un circolo vizioso in cui il figlio chiede attenzioni e contenimento, alzando il livello dello scontro, mentre i genitori rispondono con violenza, per poi cedere alle richieste del figlio.
Vorremmo prima di tutto favorire un’alleanza tra moglie e marito. Poi armonizzare la convivenza definendo alcune regole da offrire ai figli, per contenerli nelle loro insicurezze, rassicurarli e mostrare loro la necessaria attenzione. Potrebbe essere un punto di partenza per ristabilire i ruoli, aperti all’accudimento affettuoso della piccola e ad un dialogo autorevole e accogliente col figlio grande, che deve essere accompagnato per imparare a prendersi le proprie responsabilità.
Insomma, c’è ancora molto lavoro da fare…