Vincere la pace non è facile
Quale futuro per un Paese esploso sia dal punto di vista militare che tribale e sociale? Inizia una fase delicatissima.
Vincere la pace è sempre molto più difficile che vincere una guerra. Tanto più se, come nella vicenda libica, l’intervento militare ha assunto connotati controversi e il confine tra guerra civile e conflitto internazionale non è stato sempre chiaro.
Una delle questioni cruciali, che riguarda il “prima”, è stata quella della legittimità internazionale, che ci si è illusi di risolvere richiamandosi a due risoluzioni del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. C’è da chiedersi se, nella crescente complessità delle vicende che si collocano all’incrocio tra crisi umanitarie, gioco di interessi geo-economici e cambiamenti strutturali di regime politico questi rinvii alla legittimità formale bastino.
In ogni caso, come in tutti i conflitti, le questioni più spinose riguardano il “dopo”. Come sarà la nuova Libia? Come si configureranno gli equilibri politici e di sicurezza interni? Che posto avranno le questioni etniche e quelle religiose nella costruzione del nuovo Stato? E soprattutto, quali garanzie ci saranno di rispetto dei diritti umani e delle minoranze? Sono domande legittime, che però la comunità internazionale ha tardato a porsi e che soprattutto non sembrano sinora aver avuto risposta.
Le questioni più urgenti riguardano ora il processo di transizione verso la democrazia e il tema spinoso della riconciliazione nazionale. Senza una rifondazione del “patto” costitutivo del popolo libico, il rischio è che si dia spazio a vendette mascherate da giustizia, e che si inneschi una sorta di conflitto interno “a bassa intensità” che però potrebbe portare ad un elevato tasso di instabilità.
Obama, che paradossalmente, pur avendo tenuto l’America nelle retrovie, appare il vero “vincitore” della crisi libica, ha chiesto una transizione “giusta ed inclusiva”. Più facile a dirsi che a farsi; e tutto ciò rischia di non essere possibile a meno che non vi sia un impegno serio e intelligente della comunità internazionale (e soprattutto delle istituzioni multilaterali, prima tra tutte l’Onu) di intensità pari se non superiore a quello profuso nelle fasi militari della crisi.
Inoltre, si porrà la questione della collocazione internazionale della “nuova” Libia. Si può immaginare che avrà rapporti più che cordiali con Europa e Stati Uniti; ma che ruolo giocherà nei sommovimenti che stanno avendo luogo in Nord Africa e nel mondo arabo? La Libia di Gheddafi, nonostante le dichiarazioni roboanti del raìs, in realtà contava ben poco sia in Africa che nella stessa Lega Araba. La nuova leadership a Tripoli sarà in realtà molto composita, e vi saranno pulsioni in diverse direzioni.
Per evitare che la Libia “liberata” diventi in realtà un fattore di tensione piuttosto che di distensione (basti guardare ai rapporti non certo idilliaci del Cnt, Consiglio nazionale transitorio, con l’Algeria) l’Europa dovrebbe assumere l’iniziativa di proporre un quadro serio di collaborazione regionale, anzitutto tra i Paesi dell’area, che però in questo momento, per ragioni comprensibili, sembrano piuttosto assorbiti dalle questioni interne.
A questo proposito, c’è anche da ripensare dalle fondamenta il partenariato tra Europa e Africa settentrionale, dopo il sostanziale fallimento del processo di Barcellona prima e dell’Unione per il Mediterraneo dopo. Questa volta l’Europa farebbe bene ad imparare la lezione, che consiste in una regola aurea, e cioè smetterla di voler impartire teoriche lezioni di democrazia (salvo sostenere per decenni autocrati come Gheddafi, Ben Ali, Mubarak) e cominciare a lavorare alla pari, fianco a fianco con Paesi che intendono riacquistare il proprio posto nella politica e nell’economia mondiale.