«Vincere è importante, ma non è l’unica cosa che conta»
«Vincere non è importante, è l’unica cosa che conta». Una frase motivazionale, in Italia molto conosciuta tra gli appassionati di sport in quanto diventata lo slogan di una delle nostre squadre di calcio più blasonate, è usata spesso come una sorta di mantra da tanti allenatori sparsi per il mondo. Un modo per incitare i propri atleti a dare il meglio, sicuramente, una frase ad effetto che probabilmente si saranno sentiti dire anche alcuni dei vincitori delle medaglie assegnate sin qui ai campionati del mondo di atletica leggera.
Parliamo di campionissimi abituati ormai da anni a primeggiare nelle loro rispettive specialità come ad esempio Ashley Eaton, lo statunitense campione olimpico e primatista mondiale che ha dominato la prova di decathlon. Oppure di atlete come l’etiope Tirunesh Dibaba, da dieci anni regina dei 10.000 metri femminili (vinse il suo primo mondiale, a soli diciassette anni, nell’edizione di Parigi del 2003), o ancora come Shelly-Ann Fraser, la ragazza giamaicana che, nonostante lo scandalo doping che ha travolto il suo abituale gruppo di allenamento, si è confermata ancora una volta la migliore velocista pura del panorama internazionale, vincendo la prova dei 100 metri con un distacco sulla seconda classificata mai così ampio in un campionato del mondo.
Forse la frase «Vincere non è importante, è l’unica cosa che conta» se la saranno sentita dire qualche volta dai propri tecnici anche alcuni atleti che in questi giorni hanno invece vinto la medaglia d’oro un po’ a sorpresa. Ragazzi come ad esempio Raphael Holzdeppe, saltatore con l’asta tedesco, che sconfiggendo il grande favorito Lavillenie è diventato il primo atleta di colore ad aggiudicarsi il mondiale in questa specialità (Raphael ha origini africane, ma è stato adottato poco dopo la nascita da una famiglia di Zweibrucken). O ragazzi come il giovane polacco Pawel Fajdek, che nonostante fosse il finalista più giovane del lotto (ha solo ventiquattro anni), ha battuto i migliori martellisti del mondo, primo tra tutti il campione olimpico ungherese Pars.
Eh già, vincere per uno sportivo è un traguardo certamente importante, ma a guardare bene non è affatto l’unica cosa che conta. Se non ci credete chiedete a Novlene Williams (nella foto a sinistra), trentunenne giamaicana specialista del giro di pista, ovvero i 400 metri piani. Novlene è un’ottima atleta, una che nella sua carriera si è già tolta diverse soddisfazioni (nel suo palmares spiccano tre medaglie olimpiche e cinque mondiali), ma che qui a Mosca ha corso non tanto per vincere quanto piuttosto per sfidare se stessa e un imprevisto ostacolo che recentemente ha rischiato di travolgerla. A fine giugno del 2012, infatti, a poco meno di un mese dalle Olimpiadi di Londra, alla Williams è stato diagnosticato un tumore aggressivo al seno. La ragazza caraibica si è confidata con i medici e con le persone più vicine, e alla fine ha deciso di non diffondere la notizia, di provare comunque a partecipare ai Giochi a cinque cerchi, e di rimandare l’intervento alla fine delle competizioni olimpiche.
Nonostante una profonda paura nel cuore, a Londra Novlene è riuscita a difendersi egregiamente (fu quinta nella prova individuale dei 400 metri e addirittura medaglia di bronzo nella staffetta). «La mia testa era da un’altra parte. Mentre festeggiavo la medaglia sul podio, insieme alle mie compagne, mi chiedevo se sarei sopravvissuta, se avrei mai potuto disputare un’altra gara». Tre giorni dopo, è andata sotto i ferri per rimuovere il tumore. Poi, una doppia mastectomia, un’ulteriore intervento chirurgico e, nello scorso gennaio, l’intervento di ricostruzione. Negli ultimi mesi, gradualmente, Novlene ha ripreso gli allenamenti, ha vinto le selezioni del suo Paese per partecipare a questi mondiali, e lunedì sera si è piazzata ultima (ottava) nella finale dei 400 metri (ora la rivedremo in gara nei prossimi giorni nella staffetta 4×400). Novlene non ha vinto, ma alla fine della gara è stata ugualmente felice. Dimostrando che in fondo per uno sportivo «Vincere è importante, ma non è l’unica cosa che conta».