Vincenti prima che vincitori
Vedere che si cerchi di spegnere la fiaccola olimpica, per me simbolo di pace, mi addolora pro-fondamente. Quando passa la fiaccola ci si dovrebbe inchinare: la fiaccola è la storia!. Vibra forte la voce di Oreste Perri mentre con fermezza difende il valore delle Olimpiadi. Lui a Pechino sarà alla nona partecipazione, tre da atleta, sei da allenatore. Lo sport è luogo di pace, ma oggi viene usato, ed usato male: per coprire situazioni dove la pace non c’è o per dare una ribalta a conflitti e divergenze. Le rivendicazioni devono trovare soluzioni, ma altrove. Lui, al villaggio olimpico, ha vissuto di tutto, la strage di Monaco e momenti bellissimi: Sono orgoglioso di aver vissuto al villaggio, è uno spicchio di mondo dove non c’è distinzione di razza, di cultura o di religione, dove fra tutti c’è affetto e stima. È ancora vivo il ricordo dei rivali olimpici: Sfide epiche che hanno generato amicizie vere e profonde. Come quella con il croato (allora jugoslavo) Milan Janic, oggi scomparso. Ai Mondiali di Zagabria, due anni fa, Oreste ha prestato una barca italiana per la finale ai figli di Janic che avevano rotto la propria. E con quella hanno vinto: Almeno ha vinto una nostra barca. Fra amici si chiacchiera volentieri. Con il lambruschino bello fresco i lessi si sposano a meraviglia. Mi ritengo fortunato: mi sono avvicinato allo sport perché avevo 5 in educazione fisica, ero gracile ed il medico mi aveva consigliato la canoa. Ho vissuto una storia sportiva straordinaria, lunga, che mi ha fatto conoscere persone fantastiche. Ma sto vivendo male l’esperienza di questi ultimi anni, popolata di manager che hanno la filosofia dell’usa e getta. Non è più il mio ambiente: lo sport ha perso quel sapore che piace a me . È diverso essere alle Olimpiadi come atleta o come tecnico? Da atleta hai la responsabilità verso te stesso, da tecnico l’hai verso la squadra: le soddisfazioni migliori le ho provate come tecnico. È come per un padre vedere il figlio che riesce a fare qualcosa grazie al suo aiuto: è doppiamente bello!. Tredici le medaglie olimpiche conquistate sotto la sua guida, mentre lui, come atleta, pur vincendo quattro titoli mondiali, non è mai andato sul podio: quarto, quarto e quinto. Ho finito le mie tre Olimpiadi col pensiero di aver ottenuto la mia personale vittoria, e pensando che altri sono stati più bravi di me. Poi però si è saputo che nei Paesi dell’Est si usava il doping. Io resto convinto che chi mi ha battuto è stato più bravo di me. Purtroppo quando sono tornato dalle Olimpiadi, proprio chi oggi vorrebbe insegnare a me la moralità dello sport, mi ha dato dell’asino. Deve esserci rispetto per chi perde. Altrimenti, è così che si alimenta il doping!. Chi sono gli atleti che ricorrono ai farmaci per vincere? È gente che ha paura! Il doping nello sport è espressione della poca fiducia in sé stessi, della voglia di arrivare, e presto, a degli obiettivi che si sente di non poter raggiungere con le proprie forze.Ma è frutto anche della pressione intorno: in Italia oggi chi arriva secondo è considerato un perdente. Rivendico il diritto a non essere dei campioni: non massacriamo i nostri ragazzi, come allenatori e come genitori, il giorno in cui non vincono. Questo, accanto a controlli continui, è l’antidoto al doping. Che cosa hai trasmesso ai tuoi atleti? Tredici medaglie vinte non sono un caso. C’è stato un passaggio fondamentale nella mia vita di allenatore: quando ho cominciato volevo che i ragazzi vincessero facendo quello che volevo io, erano strumenti per i miei obiettivi. Poi ho capito che sbagliavo: non facevo in modo che fossero loro a voler arrivare primi. Da quel momento ho cercato di insegnare solo il modo per crescere. Per me, nello sport, esistono solo due tipi di persone: i vincenti e i perdenti. Il vincente è quello che non ha paura di niente ed anche il giorno in cui arriva secondo si rialza e ricomincia a correre. Il perdente è quello che si rassegna. Oggi, fra gli allenatori, si dice che i ragazzi non hanno più voglia di fare sacrifici. Non è vero: i ragazzi oggi non hanno obiettivi! Lo sport è come la vita: scegli di fare un sacrificio quando hai un obiettivo chiaro. Ed io cerco di dare ai ragazzi obiettivi raggiungibili: il successo non è legato al primo posto, è invece la sensazione di aver vinto. A 57 anni, alla vigilia delle qualificazioni per Pechino, le coronarie gli hanno fatto un brutto scherzo, ma Oreste lo affronta da vincente: L’esperienza della malattia, mi aiuterà a fare ancora meglio quello che avevo già in mente dopo Pechino: aiutare i cardiopatici a stare meglio con l’attività fisica. Nel dramma di questi giorni ho vissuto un’esperienza meravigliosa: in cardiologia sono stato assistito da eroi sconosciuti, gente che non avrà mai una medaglia, ma che ogni giorno e ogni notte lotta per la vita degli altri. Per riprendersi è tornato nella sua Cremona ed in riva al Po. Quando voglio rilassarmi vengo qui. Il Po è stato il mio maestro, la mia palestra. È stato il mio compagno di allenamento, perché ogni giorno dovevo stare attento a cosa mi combinava.