Vince l’Italia di Rosi

Ha vinto l’Orso d’oro un film, Fuocoammare, che ha un cuore. È il messaggio per il nostro cinema asfittico, ripetitivo, cinico. L’anima italiana è quella della pietas. Meryl Streep, presidente della giuria internazionale, conquistata e commossa.
Fuocoammare

Molti forse non se l’aspettavano. L’Italia alla 66a Berlinale, in fondo, era presente solo con Fuocoammare di Francesco Rosi. Eppure, il documentario scritto diretto e fotografato dal nostro regista ha vinto l’Orso d’oro con una Meryl Streep, presidente della giuria internazionale, conquistata e commossa.

 

In effetti il lavoro di Rosi commuove. È il frutto dello sguardo con cui si osserva, si vede, ci si addentra in una Lampedusa rocciosa, attraversata da 400mila migranti – 15mila morti almeno – sotto un cielo spesso fosco ed un mare melmoso che odora di tragedia. È un dramma universale, uno dei grandi genocidi della storia, cui l’Europa egoista, che ha suscitato guerre e fame, volta le spalle.

 

Ma “un uomo, se è uomo, accoglie le persone”, afferma il medico che da anni cura i superstiti e seppellisce i morti, ogni volta aprendo una ferita al cuore, perché “a questo non ci si fa mai l’abitudine”. Accanto a lui, alcuni personaggi isolani dove la vita continua. Il dj che trasmette canzoni siciliane su richiesta ai marinai, i nonni che raccontano dei fuochi luminosi in mare durante l’ultima guerra, il padre pescatore del ragazzino Samuele che caccia gli uccelli con la fionda, non è tanto bravo con l’inglese, e impara a remare.

 

Nell’isola la vita dunque scorre ed insieme arrivano i migranti. Rosi è poeta dello sguardo. Ci sono lunghi primi piani di occhi sgomenti, di lacrime di sangue – quasi di una “passione cristiana” –, di smarrimento e di paura. Ci sono quelli che stanno morendo e quelli morti, quelli che giocano a calcio e quelli che arrivano, scortati dalle motovedette, affannati e piangono per chi non ce l’ha fatta.

 

C’è in questo lavoro una immensa pietas, una “misericordia” per questo popolo che è di valore universale. E ciò spiega perché il film ha vinto l’Orso d’oro. In un’Europa arida di sentimenti, l’occhio lucido e profondo di Rosi ha trasmesso ciò che si fa fatica a vedere: il dolore e la vita che cresce. La sofferenza dei rifugiati e quella degli isolani, più piccola se si vuole, ma anch’essa dura, nella sua semplicità. Anche se le due vite mai si incontrano e scorrono parallele la dimensione corale del film le unifica.

 

La scena in cui la nonna rifà il letto nella sua camera con infinita cura è accompagnata dalla preghiera di Rossini “Dal tuo stellato soglio/ Signor ti volgi a noi”, che diventa nella sua melodia ascendente e circolare una richiesta commovente di aiuto. Sui popoli in fuga e su quello della piccola e rocciosa isola, dove Samuele ora non caccia più gli uccellini, ma entra in una notte bellissima fra gli alberi e accarezza uno di loro. Fiaba? Realtà?

 

Certo che questo film ha un cuore. Forse è il messaggio per il nostro cinema asfittico, ripetitivo, cinico, di commedie in fondo senza sugo. L’anima italiana è quella della pietas. Rosi l’ha ritrovata. Da qui si dovrebbe ripartire, per ritrovare anche sé stessi e per ridarla all’Occidente.

 

A Berlino ciò è stata compreso. Fuocoammare non è infatti primariamente un lavoro sociologico o ideologico o politico, ma uno sguardo poetico del cuore sull’umanità di oggi. Perciò Rosi ha sbancato con i premi: Orso d’oro, premio ecumenico, di Amnesty International, e quello dei lettori del Morningpost. Altri premi sono andati a Danis Tanovic (Gran premio della giuria) per Death in Sarajevo, duro atto d’accusa alla guerra; alla regista Mina Hansen-Love per L’Avenir e all’attrice Trine Dyrholm per The Commune.

 

Il cinema autentico, ancora una volta, ricorda la vita vera, non quella artificiale che annebbia le coscienze e chiude nell’individualismo. A Berlino infatti ha parlato la “pietà”.

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