Vince anche l’Italia
Toni Servillo miglior attore. Premi a due film sulla “dolce morte”. Un’edizione modesta sul filo rosso della famiglia.
Meno male che il Belpaese ha intascato una vittoria. Miglior attore, infatti, è risultato Toni Servillo per il notevole Una vita tranquilla di Claudio Cupellini. La storia dell’ex malavitoso che si è rifatto una vita in Germania dove lo va a trovare un figlio illegittimo, ripescando il passato, convince per la verità del sentimento. Servillo è un maestro nel dar vita e corpo al tormento dell’uomo.
Premio dunque meritato per il nostro cinema, bistrattato dalla crisi economica che ha colpito il settore culturale con tagli pesanti, come ha fatto notare la protesta pacifica del movimento “Tutti a casa” (gente di cinema teatro e musica) negli spazi dell’Auditorium romano. Eppure, di talenti il cinema nostrano ne possiede ancora. Film come Io sono con te di Guido Chiesa – una rivisitazione della figura di Maria di Nazareth – e L’estate di Martino di Massimo Natale – storia dell’amicizia tra un ragazzino e un soldato americano – dicono che le idee non difettano. E che i temi familiari sono sempre al centro dell’indagine cinematografica.
Lo rivelano anche il belga Kill me please (Uccidimi, per favore) di Olias Braco, premiato come “miglior film”, una storia di “dolce morte” in una clinica, dal tono grottesco, insieme al messicano Las buona hierbas di Maria Novaro – anch’esso sull’eutanasia di una anziana malata di Alzheimer –; l’iraniano Dog Sweat, sulle vite di sei ragazzi con i problemi dei giovani d’oggi nella società repressiva dell’Iran e l’intenso Haevnen di Susanne Bier (Gran premio della giuria): storia di due famiglie con adolescenti dai problemi affettivi.
Come si nota, si è cercato di premiare voci diverse e anche racconti diversificati come tematica e livello artistico. Perché la modestia di alcuni prodotti si è intersecata, come sovente succede nei festival italiani, ad opere di valore, anche se non eccelse. Il mondo familiare, comunque, viene indagato nei suoi aspetti contemporanei di frammentazione, divisione, ricerca del ruolo paterno, educazione alla vita o a come sopravvivere al dolore.
Non sono mancate le provocazioni: dall’americano The kids are all right, sulla vicenda di una coppia lesbica con due figli che rifiuta il padre biologico, o sull’analisi dello sfruttamento delle donne bengalesi nell’italiano Gangor. Raro il tema della speranza, come se si temesse di affrontare questa possibile dimensione dell’esistenza. Quando invece è proprio quello di cui c’è maggior bisogno. Anche per la sopravvivenza e il significato di questa stessa rassegna.
Nonostante le cifre alte “sparate” quanto a biglietti venduti (118 mila) ai guadagni (460 mila euro), agli accreditati (8.598), i disservizi sono rimasti – “notevole” la conferenza stampa della serie televisiva italiana Le cose che restano, con i giornalisti che non avevano ancora visto il film… –, la partecipazione si è rivelata inferiore all’anno scorso (anche per la collocazione a fine ottobre), sia da parte delle star come della stampa internazionale. Le grandi folle o le grandi code delle prime edizioni non ci sono state, con buona pace degli organizzatori. Meno male che alcune sezioni del festival, come “Alice nella città” ed “Extra”, funzionano con buoni prodotti.
Ci si comincia allora a chiedere se abbia ancora senso questo festival, a metà tra Venezia e Torino, e quale debba essere la sua personalità, ora che l’aria di festa (per fortuna) se ne sta andando. C’è chi vorrebbe una fusione o una collocazione unitaria del festival con quello delle fiction che si fa a giugno-luglio (anche per i costi: per la rassegna si son spesi, sembra, un decina di milioni di euro). Chi lo vorrebbe spostare dall’Auditorium per le piazze e le vie della Capitale, col rischio della festa strapaesana… C’è da pensarci su per davvero.