Vicenda Alitalia. Cosa imparare?
Rischi di un nuovo monopolio interno La faticosa trattativa per il salvataggio dell’Alitalia si è conclusa il 29 settembre quando le associazioni di categoria degli assistenti di volo Avia e Sdl hanno firmato il protocollo di accordo con il governo: il commento del leader di Avia, Antonio Di Vietri, è significativo riguardo a quanto era in gioco: Non c’è nulla da esultare, è un momento di dolore e riflessione perché almeno un collega su tre dovrà andare a casa, e gli assistenti di volo pagano il prezzo più alto, sia in termini di lavoro perso, sia in relazione al fatto che molti dovranno cambiare città per continuare a lavorare. E questo ha un impatto sociale altissimo. Questo impatto sociale è l’inevitabile risultato dell’accumularsi negli anni di piccoli e grandi privilegi, resi possibili dal fatto che il management dell’azienda per quieto vivere ed interferenze dei politici, da cui era stato insediato, non sempre per meriti professionali, ha da sempre tollerato lo strapotere delle organizzazioni di categoria del personale viaggiante, pensando cinicamente che intanto le perdite sarebbero state sanate dagli stessi politici, e che nel loro grande calderone si sarebbero persi di vista i lauti compensi che esso deliberava per sé: in dieci anni si sono così bruciati cinque miliardi di euro: 100 euro per ogni cittadino italiano, compresi i lattanti. Uno strapotere che, per ironia della sorte, non portava ad alti stipendi per piloti ed hostess, ma solo grandi sprechi per l’azienda dovuti a costosi privilegi di pochi, come i 13 milioni di euro all’anno per retribuire i moltissimi rappresentanti di categoria distaccati dal lavoro – dieci volte più delle aziende concorrenti – e come il privilegio della inamovibilità della sede di lavoro dei dipendenti romani: spostando a Malpensa molti voli internazionali, la sede del personale viaggiante era rimasta a Roma, ed esso veniva portato a Malpensa in orario di lavoro ingombrando gli aerei Alitalia e gli alberghi del milanese. Così si riducevano le ore di lavoro utili, e per le stesse tratte di volo occorrevano più piloti ed hostess: ora che questi privilegi debbono cadere, pena il fallimento dell’azienda, gli assunti in più rimangono senza lavoro. Questo a meno che l’azienda non sia in grado di averne bisogno, espandendo il suo mercato con più voli ed aerei: ma questo non si può pretendere né da un gruppo di imprenditori novellini, né dal manager di Air One, a cui attualmente alcuni operatori rifiutano addirittura la fornitura di carburante senza pagamento anticipato. Per una tale prospettiva di espansione sarebbe necessario come partner un grande operatore, Air France o Lufthansa, col rischio però che il pesce grande mangi il pesce piccolo, anziché proteggerlo e farlo crescere. Comunque questo carrozzone del passato continuerà a pesare molto sulle nostre spalle, vista la percentuale dello stipendio notevolmente alta assicurata a chi rimarrà senza lavoro e i molti anni per cui lo sarà. Ma non solo: avendo le banche creditrici approfittato di questa occasione per salvare dallo sfascio Air One, che era il concorrente di Alitalia sulle rotte nazionali, su di esse adesso torneremo al monopolio precedente al suo arrivo, quando l’aereo per andare da Milano a Roma costava come la vacanza di una settimana a Sharm El Sheik. Visto che l’autorità antitrust italiana è stata zittita per decreto, c’è solo da sperare che l’autorità antitrust europea ci obblighi a permettere anche su queste tratte la concorrenza estera: questa volta l’italianità sarebbe tutt’altro che un buon affare per chi deve volare. Mancata una visione d’insieme Circa diciottomila lavoratori (senza contare i precari); nove sigle sindacali, più una che non partecipa alle trattative; tre contratti per piloti, assistenti di volo, personale di terra. Un mediatore d’eccellenza: il sottosegretario Gianni Letta. Una società nuova, la Cai. Una legge ormai in dirittura d’arrivo. Di storie, sulla vicenda Alitalia, ogni soggetto coinvolto potrebbe scrivere la propria. Allora è bene riflettere su cosa si può imparare, anche come semplici cittadini che sanno che lo Stato non può mantenere aziende decotte. Anzitutto la politica. Chi ricorda più il tentativo del governo Prodi di cedere Alitalia a qualche compagnia straniera? Eppure ci si è resi conto che il partner straniero è indispensabile. Difatti è entrato nell’accordo sottoscritto. Questo e numerosi altri elementi fanno sorgere una richiesta: ai lavoratori bisogna andare con una proposta realistica e senza retropensieri. E senza aut-aut. Poi il mondo imprenditoriale. Le responsabilità principali del fallimento di Alitalia sono dei manager e della politica. Solo in minima parte dei cosiddetti privilegi dei lavoratori e dell’azione sindacale. Ci sono amministratori che hanno lasciato Alitalia senza aver risolto nulla pur costando milioni di euro. Chi amministra una compagnia deve rispondere almeno sul perché non siano stati raggiunti risultati. Né si può cercare di realizzare il massimo guadagno da situazioni di crisi, in un’ottica di solo profitto. Il lavoro non è una merce qualunque. C’è un’etica che va rispettata, altrimenti si ingenera una conflittualità esasperata. Il sindacato, infine. Anzitutto la frammentazione. Salvo il diritto di ciascuno di stare nel sindacato che preferisce, la moltiplicazione delle sigle è un problema oggettivo. Occorre chiarire chi rappresenta chi. Ma sarebbe stato meglio entrare nell’ottica per cui ciascuna sigla avesse visto la posizione altrui come tesa a tutelare tutti i lavoratori e a salvaguardare il futuro della compagnia. C’è una stortura mass mediatica: il sindacato non ha il potere che gli viene attribuito da giornali e tv. Emblematico il rifiuto, ad un certo punto, di molti lavoratori di parlare coi giornalisti. Certo il sindacato, ogni sindacato, deve stare lontano dalla politica, altrimenti rischia di farsi leggere ogni posizione come quella di questo o quel partito. Il sindacato, poi, deve tutelare tutti, ma a partire dai più deboli (magari in questo caso si trattava dei precari, di chi restava senza lavoro, del personale di terra con stipendi non alti) e poi saper riconoscere, in certe situazioni di difficoltà (e Alitalia ne aveva di grosse), quali sono i diritti e quali i privilegi. Conservare i primi, rinunciare ai secondi, lottare per l’essenziale e dialogare con i lavoratori. L’immagine del sindacato nella pubblica opinione (e quindi anche tra i lavoratori) si è molto deteriorata, perché è sembrato essere il responsabile del conflitto. Il sindacato, invece, è il soggetto che nasce dal conflitto per regolarlo e ordinarlo a tutela della parte debole. Parliamo di conflitto, che non va confuso ovviamente con la lotta di classe. Ma deve essere un conflitto positivo, che si evolve per sintesi alte e di cui nessuno deve avere paura.