Viaggio nelle periferie esistenziali
Periferie esistenziali. Anche se l’espressione è ormai nota, provo comunque a chiarirne il senso. Le periferie esistenziali non sono frutto dell’immaginazione, ma una presenza concreta nella nostra vita quotidiana. Sono periferie con caratteristiche specifiche, ben definite dalla toponomastica delle grandi e piccole città, con migliaia di persone ammassate, e tra queste alcune con un’infinità di problemi. Questo peraltro non le aiuta ad affrontare i problemi, né a trovare il lavoro che non c’è più o a costruire rapporti con i nuovi vicini di casa, amicizie con i colleghi di lavoro, cameratismo con i compagni di scuola; non le aiuta nemmeno l’incontro quotidiano con chi sfrutta l’altro, creando tensione e rancore di fronte a situazioni che forse pochi anni addietro costituivano ancora un’esperienza condivisa, che in qualche modo si riusciva a superare senza troppe difficoltà, ma che nel disagio crescente diventano una pietra d’inciampo a ogni forma di solidarietà e di mutuo aiuto.
Periferie dell’esistenza, cioè di persone, di uomini e donne con un nome e un cognome e con ferite sempre più profonde perché giorno dopo giorno proliferano nuove e vecchie fragilità. Le riscontri nei malati mentali che vagabondano per le strade ripetendo maniacalmente i loro mantra o in tanti anziani con pensioni da fame o nei separati – spesso uomini – che a stento riescono a mantenere i figli o, ancora, nei sempre più numerosi migranti sradicati e soli. Fragilità che oggi come non mai colpiscono i giovani, sempre più incapaci di prendere decisioni di fronte alle scelte della vita o che scelgono molto tardi, perché privi di forti motivazioni, e il cui maggior interesse sono chat e blog, perché almeno lì possono comunicare e trovare ascolto, perfino costruirsi un’identità. Periferie esistenziali, insomma, dove quotidianamente avvengono drammi umani, dove la rabbia esplode all’improvviso. Incontrollata e incontrollabile.
Periferie, peraltro, sempre più evidenti perché, a partire dal giorno in cui il gesuita Jorge Mario Bergoglio, arcivescovo di Buenos Aires, è diventato il 266º successore di Pietro, le periferie sono state portate al centro della nostra attenzione, sotto le luci della ribalta. È stato il Papa, infatti, a evidenziare in modo profetico questi uomini e donne ai margini. Non che prima non ci fossero, ma Bergoglio ce li ha posti dinanzi. Ce li ha mostrati in tutta la loro sofferenza. Ci ha detto che di loro non dobbiamo scordarci. Così le periferie dell’esistenza hanno assunto la priorità di un’opzione fondamentale per vivere questo tempo.
Allora, stimolato e provocato da una simile opzione ho ripercorso il mio viaggio alla ricerca di questi luoghi del mondo e dell’anima, per quanto mi era possibile. Nella mia vita, infatti, ho incontrato tante persone ai margini, davvero tantissime. Sono andato a trovarle nelle loro case o, meglio, negli spazi in cui la società ha concesso loro di vivere. Ho ascoltato le loro storie di vita a volte raccapriccianti, altre in un certo senso piuttosto normali, anche se lo abbiamo dimenticato o forse abbiamo paura di ricordarcelo, perché certe storie ci interrogano profondamente. […]
Alcune storie, poi, hanno per protagonisti uomini e donne che sono riusciti a tornare in gioco. A riscattarsi. Per tante di queste mi sono commosso, sia quando me le hanno raccontate, sia quando le ho riscritte su queste pagine. Mi ha sempre sorpreso, infatti, constatare come raramente sia il destino a dire l’ultima parola. Se, infatti, questa spetta a qualcuno, è soprattutto alla forza di volontà e all’amore.
Infine, mi sono ripromesso di raccontare anche una “città del bene”, nella quale associazioni e singoli individui spendono il poco tempo libero che hanno per riscattare le periferie dell’esistenza. Un’infinità di associazioni e di individui! Perché sempre dove è la sofferenza, c’è chi se ne fa carico e nel nostro Paese, a causa dell’assenza o perlomeno dell’eccessiva lentezza delle istituzioni, spesso è la gente di cuore a intervenire per prima.
In tutte queste storie mi sono imbattuto anche perché, fin da giovane, lavorando come giornalista ho avuto modo di seguire e intervistare uomini e donne che vivevano in condizioni di grande precarietà esistenziale.
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Quello che ho cercato di raccontare è in fondo la mia esperienza quotidiana. Credo capiti lo stesso al medico che deve curare ogni giorno decine di malati o al prete che ascolta al confessionale frotte di penitenti. Finisce che la passione, che pure metti nelle cose che fai, si purifica e a raccontarla ne esce uno stillato, forse talvolta un po’ neutro, ma in fondo più autentico. E a me l’autenticità piace da matti!
da SENZA DIRITTO DI CITTADINANZA di Silvano Gianti (Città Nuova 2016), pp. 112; € 13,00